Marlane. Racconto di una fabbrica dei veleni.

La Calabria è una regione meravigliosa, ricca di rare bellezze naturali e con una struttura morfologica capace di regalare al territorio panorami mozzafiato. Coste rocciose e spiagge, sovrastate da quelle colline che fanno da cornice ai parchi e alle riserve naturali montane e sembrano essere guardiane dei litorali. Promontori e golfi, incantevoli alla sera anche se il mare è in burrasca. Prati, montagne innevate in inverno, boschi, frutta, castagneti, fiumi e laghi appartenenti ad un entroterra in cui la natura è stata generosa nel distribuire tutto il suo immenso splendore.
La Calabria. Una terra povera, madre di figli e figlie emigrati per altri luoghi alla ricerca di un lavoro, di un futuro stabile che purtroppo non riesce ad offrire. Sulla disperazione e su una forte disoccupazione ha radicato le sue radici la “malapianta” – la ‘Ndrangheta – organizzazione malavitosa capace di dipingere a tinte scure il volto di un territorio condannato a pagare, per lungo tempo, il prezzo del malaffare.
Un popolo dedito alla pesca, all’agricoltura e all’allevamento quando possibile. Un’area della penisola italiana tra le più indigenti che dalla metà degli anni 50, però, comincia ad essere bramata dai ricchi industriali dal titolo nobiliare, interessati ad accrescere i propri guadagni.

Questo incipit vale anche per Praia a Mare, la città dell’isola di Dino e della “fabbrica dei veleni”.
Sono gli anni del Dopo Guerra e della seconda tornata di imbarchi verso l’America, delle partenze alla volta delle miniere del Belgio e degli altri Stati europei o delle industrie dell’Italia Settentrionale quando il biellese industriale, conte Stefano Rivetti, giunge per la prima volta in quelle terre incontaminate e fa tappa a Maratea. La povertà è tanto diffusa quanto puliti e genuini sono quei luoghi, e per “risollevare economicamente il Sud Italia” fioccano fondi e finanziamenti elargiti dalla Cassa del Mezzogiorno, con il patrocinio dell’egemone Democrazia Cristiana. Con quei soldi Rivetti inizia a “civilizzare” quella parte della costa tirrenica, a metà tra la Lucania e la Calabria: l’azienda florovivaistica “Pamafi”, l’hotel a cinque stelle (ancora extra lusso) Santa Venere, il “Lanificio di Maratea S.p.A.” mandato avanti da 300 dipendenti, rappresentano una fetta del boom economico vissuto dall’Italia Meridionale alla soglia degli anni 60. Tutto sembra procedere a gonfie vele. Molte persone lasciano la zappa o abbandonano le battute di pesca e vengono impiegate in fabbrica, dove ricevono quel minimo di alfabetizzazione necessaria per imparare a leggere e a scrivere senza dover più firmare con una x. Finalmente si svolge un lavoro diverso, in grado di permettere stabilità economica.
Lo sviluppo industriale prolifera e varca il confine lucano giungendo nella vicina Calabria, a Praia a Mare. Qui, nel 1957, il conte Rivetti inaugura il “Lanificio R2” e la “Lini e Lane”, quest’ultima specializzata nel confezionare tovagliato e ricami.

Per il gruppo Rivetti comincia il declino: gli stabilimenti di Maratea e la Lini e Lane chiudono nei primi anni 70, e il Lanificio R2 sarà rilevato dall’IMI (Istituto Immobiliare Italiano) dall’ENI nel 1969, cambiando nome in “Lanerossi”. Nel 1987 la fabbrica è acquistata dal gruppo tessile Marzotto, con sede principale a Valdagno, in provincia di Vicenza, e sarà intitolata “Marlane-Marzotto S.p.A.”. I Marzotto sono una famiglia di conti, proprietari di un vero e proprio impero nella produzione delle stoffe: tre industrie presenti solo nel Veneto a Valdagno, Schio, Piovene Rocchette, nel vicentino; a Manerbio, nel Bresciano ed a Salerno. Tutte queste imprese, insieme al polo prajese, dismetteranno la propria attività agli inizi del 2000, per essere trasferite tra la Polonia e la Repubblica Ceca, mentre lasciano centinaia di persone senza un lavoro. E senza una buona salute.
“Perchè chiusero la fabbrica e ci tolsero il lavoro e ci resero la vita molto dura.”

A Praia a Mare, dicevamo, si producevano stoffe. I soli reparti di tintoria e filatura impiegavano più di 300 persone, provenienti anche dai paesi limitrofi come Tortora, Ajeta, San Nicola Arcella e Scalea. Il fiorente commercio e la grossa produzione permettevano ai lavoratori uno stipendio con cui potevano acquistare appartamenti o costruire le proprie case, avere i primi elettrodomestici e la macchina, togliersi qualche sfizio, viaggiare, permettere ai figli di avere l’istruzione a loro mancata per le carenze economiche o sperare che entrassero a lavorare in fabbrica, di modo che la “famiglia” non si sarebbe mai dovuta separare.
Su tutti questi “piccoli diritti da schiavo” il padrone ha accresciuto la propria ricchezza.
Su tutte queste apparenti soddisfazioni, sull’ignoranza e la necessità di “lavorare per campare” il padrone ha ricattato e sfruttato il proletario, abbattendo i costi sul lavoro. Parafrasando Marx si potrebbe affermare come il capitalista di turno – in questo caso Marzotto – abbia disposto la modalità e concesso il suo permesso affinché l’operaio potesse vivere e lavorare.
Le ottimali condizioni lavorative descritte dagli operai e dalle operaie nelle interviste di emittenti televisive e giornali, abili ad arricchire di maggiori dettagli felici quelle relazioni, ben presto si scopriranno solo “narrazioni di facciata” e frutto dell’omertà a cui si era costretti per continuare ogni mese a ricevere uno stipendio.

Nel 1968, mentre a Valdagno scoppia la rivolta degli operai della fabbrica Marzotto, sfociata in una ribellione cittadina portata avanti da 3.000 persone e i lavoratori, come atto liberatorio dalla pesante pressa del padrone abbattono la statua del conte Gaetano Marzotto; nella lontana Calabria, gli operai e le operaie della Marlane si ammalano e muoiono di uno strano malanno.
“E’ morto di un male. Non stava bene”, questo ripeteva il proletariato assoldato nel tessile.
Uno, due, tre, dieci. A metà degli anni 80 sono più di cinquanta le morti sospette avvenute per esalazioni tossiche. I dipendenti della Marlane hanno pagato con il silenzio e la vita il ricatto del padrone: se volevi continuare a lavorare dovevi nascondere la testa sotto la sabbia. Zitto e muto, eri costretto a calpestare la tua dignità di essere umano e ad inginocchiarti davanti al profitto del ricco industriale, da tutti apprezzato e rinomata benevola persona verso quel Sud in difficoltà.

Nel reparto di tintoria erano presenti delle vasche, prive di copertura, in cui i dipendenti, senza mascherine e guanti, immergevano a mani nude le stoffe nelle sostanze coloranti risultate essere tossiche. A peggiorare la situazione si aggiunse anche la rimozione dei separatori con il reparto di filatura.
L’impianto di areazione non funzionava e gli operai filtravano l’aria attraverso i propri polmoni. “Stamattina andiamo in Val Padana!”, scherzava qualcuno. Forse per sdrammatizzare, forse per farsi coraggio e stringere i denti ad andare avanti. Nel 1973 due operai addetti al carbonizzo, macchinario adoperato nella bruciatura dei peluche presenti sui capi scuri, decedono per un cancro all’apparato digerente.
Nessuno parlava, e se qualcuno si lamentava delle condizioni di lavoro era invitato ad andare via. Per un operaio licenziato, un altro era facilmente reperibile in una terra dove si scappa dalla mancanza di occupazione. L’aria puzzolente rendeva l’atmosfera irrespirabile e a fine turno, per ripulire le vie respiratorie, si beveva mezzo litro di latte.
Latte contro elementi tossici. Ottima soluzione, costo operaio pari a zero lire.
Il reparto di filatura aveva i telai in amianto: i freni sfregavano sulle macchine generando la polvere aspirata degli addetti ai lavori. Solamente nel 1996 una delegazione sindacale si recò a Roma per chiedere maggiore sicurezza sul posto di lavoro, anche perchè di medici nemmeno l’ombra.

Uno, due, tre, dieci, trenta, cinquanta, cento gli operai e le operaie morte di carcinoma e leucemia.
“Mio marito tornava a casa e sputava saliva nera nel fazzoletto. Tossiva.”- questo è il racconto della vedova di Biagio Possidente, preposto ai telai. “Non dovevo parlare o i miei figli non avrebbero trovato impiego in nessuna fabbrica. La casa? O compri o te ne vai.” è la testimonianza della vedova di Aurelio Greco, altro operaio deceduto per cancro e residente in una di quelle palazzine tra cui si trova anche il “palazzo delle vedove” poichè 5 persone su 6 sono morte per un cancro ed altre sono in cura. Oltre il danno la beffa, se pensiamo all’obbligo di acquisto a cui sono stati vincolati gli ex dipendenti Marlane o i loro eredi senza avere l’appoggio delle istituzioni locali, evidentemente troppo affaccendate ad oscurare la vicenda ed a proteggere padron Marzotto.
Il figlio del signor Greco, invece, narra gli ultimi drammatici momenti di vita del padre quando i due Bravi, inviati dal Veneto in Calabria su ordine di Don Rodrigo, giungono in ospedale e prendono la mano lavoratore ormai in stato terminale e di semi-coscienza per “aiutarlo” a firmare la lettera di licenziamento. “O firmava o non avrei avuto diritto alla pensione. Così mi hanno detto quando sono andata in fabbrica per chiedere come mi dovevo muovere”. E’ sempre la vedova Greco a rivivere le tristi giornate rimaste indelebili nella sua memoria, che si libera di quel peso tenuto dentro per tanto tempo ai microfoni di Crash, un programma trasmesso su Rai Tre solo anni dopo rispetto al primo interessamento della magistratura sul caso. Gli stessi giornalisti intervistano anche Luigi Pacchiano, operaio che preferì licenziarsi dalla fabbrica perchè malato e privo di qualunque aiuto da parte dei sindacati e dei responsabili Marlane; che insieme ad Alberto Cunto, un altro dipendente, svelerà i retroscena della vita in fabbrica.
I giornalisti raccolgono anche un’altra importante esposizione, o meglio una “testimonianza chiave” per l’intero processo che di li a poco prenderà il via: il resoconto di Francesco De Palma. L’operaio, specializzato nel reparto tintoria dal 1964 al 1990 ed oggi deceduto pure lui a causa di una neoplasia, nell’intervista ricorda i fine settimana in cui, su comando dei responsabili della sede prajese, con un altro collega scavava delle grosse buche. A ridosso della spiaggia, distante una manciata di metri dal capannone, fusti pieni di liquame e di rifiuti altamente tossici sono stati seppelliti nel sottosuolo e coperti da terra e omertà. De Palma continua la sua narrazione tossica e descrive il cattivo funzionamento dell’impianto depurativo dell’azienda: sebbene saturo al 70%, si proseguiva con lo scarico delle acque reflue all’interno dei pozzi. Liquidi provenienti dalla tintura, dal finissaggio e dal lavaggio venivano schiariti dal depuratore e poi rigettate nel mare mentre i fanghi di lavorazione, una volta diluiti, erano riversati sul nudo terreno.

Deposizioni particolarmente allarmanti quelle rilasciate dagli ex operai e dai loro congiunti, così tanto preoccupanti da accendere un campanello di allarme tra ambientalisti, comitati e cittadinanza, oltre che della Procura di Paola. Arriviamo al 1996. Dopo anni si avviano le prime indagini e nel 1999, invece, l’inchiesta varcherà le porte dell’aula del tribunale calabrese.
Intanto la globalizzazione avanza e il procedimento di privatizzazione finisce per investire totalmente anche l’economia di casa nostra. Il gruppo Marzotto, allo scopo di moltiplicare i propri profitti, decide di spostarsi nell’Europa dell’Est: i lavoratori sono meno esigenti e la manodopera costa solamente 5 euro all’ora. Dal 2000 al 2004 i macchinari vengono smontati e trasferiti fuori dall’Italia, creando danni anche ad altre piccole imprese (trasporti, rammendo). A nulla serviranno gli scioperi della fame, le minacce di suicidio urlate dall’alto dei silos sui quali sei dipendenti restarono arrampicati una settimana, giorno e notte. A nessun risultato porterà il blocco della Statale 18. Il padrone aveva già deciso: era giunta l’ora di chiudere, e pur di giustificare l’abbandono dell’attività aziendale si useranno scuse improponibili; come le troppe ore di malattie richieste da squadre operaie pigre e vagabonde, scarsa produzione. La Marlane tramonta nel 2004.

Nel frattempo, però, dalla Procura di Paola partono nuove indagini, guidate dal procuratore Bruno Giordano, figura fortemente impegnata contro gli ipotetici disastri ambientali avvenuti in terra calabra.
Nel 2006 e nel 2007 sono avviate due importanti investigazioni sui rifiuti tossici molte volte nominati dai vari teste. Un pool, tra tecnici e investigatori, assieme al NOE effettua scavi e rilievi sul sito ritenuto inquinato. Gli esperti rinvengono alcuni fusti e dei contenitori in cui sono racchiusi dei liquami. Coloranti azoici, estremamente pericolosi per la salute umana e l’ecosistema; Cromo, Nichel, Metalli Pesanti, Arsenico e Idrosolubili, questi ultimi velocemente assimilabili da piante e tessuti, sono le sostanze rinvenute nel perimetro della Marlane sul quale, però, si scava a 3- 4 metri di profondità rendendo impossibile la conoscenza dello stato di salute delle falde acquifere.

I risultati di questa prima parte di indagine, consultando gli atti dell’ARPACAL e dell’ASP, portano ad un grosso buco nella documentazione relativa allo smaltimento dei fanghi industriali avvenuta nel periodo 1993-1995 e 2000-2004.
Nel primo caso si sommano circa 750 tonnellate eliminate in Campania fino al 1993, anno in cui l’amministrazione regionale campana pone un freno ai rifiuti provenienti da fuori regione. La Marlane, allora, trasporta i fanghi presso l’impianto di bio-conversione in contrada Costapisola, nel comune di Santa Domenica Talao. Nel 1998, però, si costituisce una commissione d’inchiesta parlamentare sul ciclo dei rifiuti e sulle attività illecite ad esso connesse, e in una parte del resoconto “Missione Calabria” si legge come Costapisola non abbia alcun impianto ma solo un terreno sul quale gli scarti vengono depositati.
Nella seconda circostanza, invece, si è celebrato un processo per illecito smaltimento dei rifiuti concluso con un patteggiamento sui reati contestati.

A distanza di oltre dieci anni dalle prime inchieste, ad aprile 2011 si apre il Processo Marlane; tra i più rilevanti in ambito di materia lavoristica per tutto il Sud Italia. L’area è sottoposta a sequestro per evitare ipotetiche manomissioni dei luoghi e la Pubblica Accusa è guidata dalle PM Linda Gambassi e Maria Camodeca, mentre il procuratore Bruno Giordano corre in ogni modo contro il tempo delle prescrizioni previste per i vari capi di accusa.
Le imputazioni da provare per rendere giustizia a 107 operai deceduti e più di cento persone ad oggi malate sono abbastanza gravi: omicidio colposo plurimo aggravato da omissione di cautele sul lavoro; lesioni gravissime; disastro ambientale. Tredici gli imputati iniziali, ridotti a dodici dopo il decesso di uno degli accusati: Pietro Marzotto, ex presidente del gruppo “Eni- Marzotto”, l’ex amministratore delegato Silvano Sroner, il manager Jean De Jaegher, l’ex sindaco di Valdagno e vicepresidente della Lanerossi, Lorenzo Basetti, l’ex sindaco di Praia a Mare e caporeparto alla Marlane, Carlo Lomonaco, Vincenzo Benincasa, Giuseppe Ferrari, Lamberto Priori, Ernesto Antonio Favrin, Attilio Rausse. Le parti civili costituitesi tali al processo sono state le seguenti: Legambiente, WWF, comune di Tortora, CGIL, CISL, UIL, SLAI COBAS, SI COBAS, parenti e operai dell’azienda. Tra questi ultimi, diverse le figure che hanno ritirato la propria posizione di parte civile al processo. Un ritiro avvenuto lo scorso anno a seguito dei 5 milioni e 500 mila euro distribuiti agli stessi da Marzotto affinchè abbandonassero il processo. Così è stato.
Dopo due anni di fitti interrogatori, ipotesi sullo spostamento del processo presso il Tribunale di Vicenza, controperizie distrutte da una difesa scellerata, come l’arringa dell’avvocato Matteo Usleghi, difensore dell’ENI il quale ha ritenuto “di non particolare gravità le sostanze rinvenute nel terreno per dichiarare il disastro ambientale, poiché presenti in una soglia troppo bassa rispetto ai limiti”; alla fine,il Processo Marlane si è concluso venerdì 19 dicembre 2014. La sentenza di primo grado è stata di assoluzione in formula piena per insufficienza di prove e perchè il fatto non sussiste. Tutti assolti. Nessun colpevole.

Insomma, alla Marlane di Praia a Mare non è accaduto nulla.
Come può mai essere credibile un verdetto simile dopo le tante dichiarazioni e le reali presenze nocive scoperte proprio nei terreni intorno allo stabilimento? Come si può accettare il silenzio dei sindacati; prova inconfutabile di quanto distanti siano ormai dai reali bisogni dei lavoratori. Perchè in tutta questa vicenda occorre domandarsi anche il movente secondo cui l’attuale sindaco Antonio Praticò, sindacalista per la Cisl all’interno della Marlane, si ricordi solo molto tempo della probabile potenzialità inquinante della zona industriale. Perchè, sapendo che il sito Marlane è stato riconosciuto come inquinato, avrebbe dovuto ritardare il processo di bonifica ottenendo i fondi provenienti dal progetto del Ministero dell’Ambiente MIAPI, volto all’individuazione di aree inquinate? Dove si trovavano sindacalisti e responsabili di sicurezza quando gli operai e le operaie inalavano veleno?
Il giudizio ottenuto con il primo grado di appello conferma come una bonifica, su quegli appezzamenti, se mai avverrà, si verificherà in maniera parziale. Grazie anche alle ultime modifiche apportate dal decreto legge Sblocca Italia in materia di bonificazione, la palla passa totalmente nelle mani del privato inquinatore e, secondo il “principio del chi inquina paga” e la netta esclusione dell’Arpa e di ogni altro ente locale interessato ad avere l’ultima parola sull’autocertificazione (presentata da chi ha devastato i territori, quindi libero di riportare la presenza di materie meno pericolose e perciò meno costose per la decontaminazione), diventa speranza effimera anche la possibilità di ripristinare i luoghi contaminati.
La rabbia, prima umana poi politica, divampa dentro come un incendio. Non esiste giustizia sociale ma soltanto un sistema di leggi create ad hoc per essere rigirate e applicate secondo il potere dei più forti. Il caso Marlane è stato il fanalino di coda dei tanti procedimenti a danno della salute dell’ambiente e delle persone e contro il diritto e la dignità del lavoro che si sono conclusi in quest’ultimo anno; confermando come la legge del capitale riesca sempre a spuntarla. A difesa della Eni e della Marzotto vi erano abili e furbi legali, come Ghedini (già avvocato Confindustria), Pisapia, Calvi del PD… nomi conosciuti contro i quali gli avvocati di accusa sono stati umili e coraggiosi a battersi fino alla fine per rendere giustizia ai “caduti della Marlane”. Sentenze “positivamente shock” nessuno le attendeva ma cavarsela così proprio non è accettabile.
Non esiste equità e qualcuno si azzarda anche a festeggiare la vittoria del padrone, che schiaccia i suoi schiavi con il tallone di ferro, come direbbe Jack London.
Il padrone. Colui capace di illudere per anni e anni la classe operaia, vissuta nell’illusione di potersi riscattare dal suo antico miserabile status di sfruttata e subordinata al profitto dei colossi industriali.
C’è ancora sete di giustizia, però.
Solo nei centri di Praia e Tortora i malati di cancro sono più di un centinaio e varie sono le persone decedute a causa di carcinomi. Spazzate via in pochi mesi, qualche settimana addirittura.
La battuta di arresto è dura da accettare, ma è necessario pensare a nuove tattiche per contrastare la gravissima devastazione ambientale e i suoi tragici effetti sulla condizione umana.
Occorre insistere sullo stretto nesso esistente tra patologie tumorali e territorio inquinato, ma non solo a Praia: non bisogna dimenticarsi delle navi dei veleni, degli impianti bloccati di San Sago (Tortora), delle discariche abusive.
Occorre informare ed essere informati per contrastare il pericoloso attacco sferrato dal capitalismo, che sebbene sia al collasso, continua ancora a mettere a profitto le risorse naturali e le vite.
Occorre incalzare sull’istituzione di un registro tumori a livello regionale, affinché possano essere pianificati gli screening oncologici, necessari nella prevenzione delle neoplasie.
Solo se agiremo con costanza e dedizione, pianificando al meglio le prossime mosse, le generazioni future non saranno condannate e sarà reso onore a coloro i quali hanno abbandonato fin troppo presto i propri affetti solamente per il lavoro.

E, a questo punto, il diavolo si ritenne soddisfatto del suo lavoro, toccò a lui prender sonno mentre si svegliava il Signore.
Quando, aperti gli occhi, potè abbracciare in tutta la sua vastità la rovina recata alla creatura prediletta , Dio scaraventò con un gesto di collera il Maligno nei profondi abissi del cielo.
Poi, lentamente rasserenandosi, disse: – Questi mali e questi bisogni sono ormai scatenati e debbono seguire la loro parabola.
Ma essi non impediranno alla Calabria di essere come io l’ho voluta.
La sua felicità sarà raggiunta con più sudore, ecco tutto. Utta a fa juornu c’a notti è fatta -. Una notte che già contiene l’albore del giorno. >>
 (Leonida Repaci – Quando fu il giorno della Calabria).

Alessia Manzi

30/12/2014 www.communianet.org

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