Morte sotto gli ulivi

Questa guerra non si sta svolgendo solo a Gaza. Dopo gli attacchi del 7 ottobre, la Cisgiordania ha vissuto le settimane più mortifere dalla Seconda Intifada

La mattina del 30 ottobre, Omar Ghoneym, contadino palestinese del villaggio di Al-Kader, si mette alla guida per recarsi nelle sue terre a sud di Betlemme. In macchina, quasi arrivato, riceve una telefonata che lo distrugge: quasi tutti i suoi ulivi sono stati sradicati, fatti a pezzi dai coloni israeliani. Una volta giunto sul posto, si rende conto che la descrizione del macello fattagli al telefono era stata moderata. Non solo tutti gli alberi, ma anche gli antichi dar (case contadine, lì da più di 2 secoli), erano stati smantellati, pietra per pietra. Un bulldozer israeliano aveva investito tutta la sua proprietà.

Mahmoud Abdullah, un altro agricoltore, ha ettari di viti proprio accanto agli alberi di Omar. I soldati israeliani non gli avevano permesso di raccogliere la vendemmia dal 7 ottobre. Ma la mattina del 30 ottobre, non c’era più nulla da raccogliere perché le sue viti erano state schiacciate nel terreno. I coloni avevano  vandalizzato ogni segno di vita palestinese sulle colline che circondano la loro colonia, Efrat.

I contadini palestinesi conoscono la loro terra al millimetro quadrato. Per loro non esistono «piante selvatiche»: ogni germoglio è espressione della vita palestinese, simbolo di resistenza come flora indigena. Mietono il raccolto, si prendono cura dei loro alberi e camminano lungo le viti con lo stesso amore e la stessa responsabilità con cui proteggono i loro cari. Le loro famiglie sono custodi di questi alberi da generazioni; gli ulivi fanno con loro altrettanto. 

Questa guerra non si sta svolgendo solo a Gaza. Dopo gli attacchi del 7 ottobre, la Cisgiordania ha vissuto le settimane più mortifere dalla Seconda Intifada. Al 14 novembre, oltre 180 palestinesi in Cisgiordania sono stati uccisi, 2.200 persone sono state arrestate e tutti i villaggi e le città sottoposte a un assedio che impedisce ai residenti di spostarsi sul territorio.

La situazione dei contadini palestinesi è particolarmente difficile, poiché la maggior parte di loro possiede terreni, coltivazioni e raccolti nella cosiddetta Area C. Questa è la più grande delle tre zone in cui è stata divisa la Cisgiordania dopo gli accordi di Oslo degli anni Novanta, che prevedono che l’Autorità Palestinese amministri le Aree A e B, mentre l’Area C – che doveva essere «progressivamente restituita ai palestinesi» – è interamentde sotto il controllo dell’esercito israeliano (Israel Defence Forces, Idf). L’Area C, che comprende quasi il 70% del territorio della Cisgiordania, è dove si trovano ed espandono gli insediamenti israeliani da trent’anni.

Nell’ultimo mese agli agricoltori non è stato permesso di raggiungere queste aree e l’Idf ha informato loro che se dovessero tentare di raggiungere i loro uliveti, verranno uccisi. Alcuni agricoltori hanno condiviso foto di volantini che i coloni hanno lasciato sui loro uliveti, con la scritta: «Avete raggiunto il confine! L’ingresso è vietato e pericoloso, e chiunque si avvicini vedrà alberi in fiamme».

Quando gli ho chiesto come stia occupando le sue giornate, visto il divieto di occuparsi delle sue viti, Mahmoud ha detto che passa le sue giornate guardando il telegiornale e pregando per la gente di Gaza. «A questo punto, il raccolto è già tutto perduto. Tutto ciò che possiamo fare è sperare che la guerra finisca. Come possiamo pensare ai nostri problemi qui, mentre Gaza brucia?».

Gli attacchi contro gli agricoltori hanno raggiunto l’apice il 28 ottobre, quando Bilal Saleh, un agricoltore di un villaggio a sud di Nablus, è stato ucciso da un soldato israeliano fuori servizio. È morto sul colpo, sotto gli occhi dei suoi quattro figli. Il soldato è stato arrestato, ma come dimostrano precedenti casi di attacchi di coloni e/o soldati contro civili palestinesi, la giustizia diventa imparziale contro i perpetratori israeliani, che vengono rilasciati prematuramente, sotto impunità.

Altri contadini, come Na’em Abu Eram e la sua famiglia a sud di Hebron, sono stati aggrediti e gravemente feriti da assalti. Mentre il padre di Na’em, settantaduenne, stava pascolando le sue pecore, è stato aggredito dai coloni e successivamente ricoverato in ospedale. Uno dei fratelli di Na’em ha registrato con una telecamera tutti gli attacchi subiti negli ultimi quindici anni e condivide i video con Ong per i diritti umani come B’Tselem. Due settimane fa, un colono gli ha confiscato la telecamera, rompendogli le dita della mano.

Abdullah Salem Abu Aram ha sessantadue anni e, dopo la pensione, ha deciso di dedicare tutta la sua vita alla coltivazione delle sue terre nel villaggio di Qawawis, sulle colline a Sud di Hebron. Appartengono alla sua famiglia dal 1958 e, nel 1981, suo padre ha piantato centinaia di ulivi nei quasi trenta acri di terra che possiede. «L’occupazione ci ha impedito di arare, potare e raccogliere i nostri frutti, sfrattandoci dalla terra prima e dopo la guerra. I coloni ci picchiano e minacciano di ucciderci all’ordine del giorno. E poi sono loro a chiamare l’esercito, affinché ci cacci dalla nostra terra sotto falsi pretesti». Prosegue: «Ora non possiamo tornare a raccogliere il raccolto perché temiamo per la nostra vita e non sappiamo cosa fare. Costituisce l’80% del reddito della mia famiglia, ma in questo momento non ci penso nemmeno, perché quello che sta succedendo a Gaza occupa tutti i nostri pensieri».

La maggior parte dei civili palestinesi – soprattutto i contadini – non possiede armi. D’altra parte, i coloni – che hanno tutti addestramento e attrezzatura militare – hanno recentemente ricevuto migliaia di pistole e fucili distribuiti dal Ministro della Sicurezza Nazionale israeliano Itamar Ben-Gvir in persona.

Abbiamo scritto al portavoce dell’Idf chiedendo di commentare la recente ondata di violenza di coloni e soldati in Cisgiordania, chiedendo di prendere in considerazione in particolare l’omicidio di Bilal Saleh e gli attacchi contro gli agricoltori. Nella sua risposta  non ha fatto menzione di alcuno dei due argomenti, ma ha sottolineato che la loro missione nel territorio della «Giudea e Samaria» – nome biblico della Cisgiordania – è quella di garantire la sicurezza dei residenti e prevenire qualsiasi attacco terroristico. Nell’ambito delle operazioni antiterrorismo, ha dichiarato di aver condotto arresti notturni per catturare i sospetti e di aver installato «posti di blocco dinamici» per garantire la sicurezza in tutto il territorio. Inutile dire che i residenti da proteggere sono solo gli israeliani, poiché tutti i palestinesi rientrano nella categoria di potenziali terroristi.

Il suo commento non riflette la realtà: gli arresti notturni hanno portato alla detenzione di migliaia di attivisti pacifisti o di palestinesi comuni che sono stati accusati di collaborazione terroristica semplicemente per aver messo mi piace a dei post su Facebook. Inoltre, i «checkpoint dinamici» in questione sono, in realtà, blocchi di cemento piuttosto rigidi, cancelli di ferro e cumuli di terra, che hanno inibito completamente la circolazione dei palestinesi dentro e fuori le città. Questo ha ulteriormente isolato molte comunità che sono di base poco servite e non hanno accesso alle strutture sanitarie o a risorse idriche a causa dell’occupazione.

Inoltre, per meglio inquadrare l’agenda «antiterrorismo» dell’Idf, dovremmo tenere presente che dati precedenti al 7 ottobre mostrano come i coloni in Cisgiordania fossero già i cittadini con il più alto tasso di possesso di armi da fuoco in tutto il territorio israelo-palestinese, e che il loro uso nel perpetrare attacchi contro i palestinesi sia cresciuto esponenzialmente negli ultimi anni.

Alla luce di ciò, la rivendicazione dell’autodifesa come giustificazione per la violenza scatenata contro i palestinesi è enormemente sproporzionata – e non ha alcun senso quando le vittime di questa violenza sono agricoltori inermi.

Agricoltura per la liberazione

«Ottobre è un mese sacro per la Palestina: il reddito annuale di molti agricoltori si basa quasi interamente sulla stagione della raccolta delle olive. Le famiglie non avranno nulla a causa dell’assedio israeliano», afferma Saad Dagher, agronomo palestinese di Mazari En-Nubani, un villaggio a nord di Ramallah. Dagher ha oltre venticinque anni di esperienza accademica e sul campo nella ricerca agricola. Sostiene che la liberazione palestinese è intrinsecamente legata al diritto dei palestinesi di autogestire la propria agricoltura. Per decenni, la terra è stata colonizzata – e le autorità israeliane hanno costretto i contadini palestinesi a obbedire a metodi di coltivazione in opposizione con la loro tradizione. «L’agricoltura palestinese è sempre stata policulturale, il che significa che diverse colture possono e devono crescere fianco a fianco sullo stesso pezzo di terra. L’agricoltura israeliana ha imposto la monocoltura, che va contro la biodiversità e l’autosostenibilità della terra palestinese», afferma Dagher. Questo è uno dei due motivi principali per cui Israele rende la vita degli agricoltori un inferno: vuole eliminare tutte le tracce della storia palestinese, perfino la storia naturale del suo suolo.

L’altro motivo è che gli alberi e le coltivazioni di proprietà palestinese rappresentano un ostacolo all’acquisizione di ulteriore terreno per la costruzione di colonie, per cui l’eliminazione delle loro tracce ne facilita il processo. «Circa un milione di ulivi, molti dei quali vecchi molti secoli, sono stati sradicati da Israele dal 1967. Non li sradicano solo con il pretesto di dover fare spazio agli insediamenti o ad altre infrastrutture dell’occupazione. Sostengono anche che gli ulivi rappresentino “minacce alla sicurezza” per gli israeliani, in quanto gli alberi sono postazioni dietro le quali i palestinesi si nascondono per colpire i soldati. È follia pura».

I contadini palestinesi producono annualmente tra le venticinquemila e le trentacinquemila tonnellate di olio d’oliva (Zeit Zeitoun); Dagher prevede che la stagione di quest’anno produrrà, al massimo, tra le dodicimila e le quindicimila tonnellate. Numeri simili sono emersi dalle stagioni di raccolta della Seconda Intifada, durante le quali i contadini non solo non potevano raccogliere le olive, ma venivano anche fermati ai posti di blocco israeliani e costretti a versare sulla strada i pochi litri di olio d’oliva che erano riusciti a produrre. Dagher teme che la storia si ripeterà, dato che sempre più agricoltori e cittadini innocenti vengono perseguitati a un ritmo eccezionalmente elevato. Tuttavia, mentre l’economia palestinese – che dipende in modo significativo dall’agricoltura (6% del Pil) – dovrà affrontare conseguenze terribili, l’attuale repressione degli agricoltori non è una sorpresa.

Anche prima del 7 ottobre, ai contadini palestinesi non è mai stato permesso di accedere liberamente alle loro terre. Ogni volta che dovevano occuparsi della loro terra, dovevano richiedere un permesso speciale all’Idf, che li autorizzava a coltivare in orari prestabiliti – per non essere molestati dai coloni. E poiché l’esercito israeliano spesso non rilasciava questi permessi, i contadini si trovavano di fronte al dilemma: rischiare la propria vita per prendersi cura dei propri campi, o prendersi cura di sé stessi e perdere il raccolto. Il rischio è molto alto, poiché raggiungere le loro terre spesso comporta dover oltrepassare il muro dell’apartheid, costantemente monitorato, che divide il territorio palestinese in zone segregate. Ma la maggior parte dei contadini è disposta a prendersi il rischio se questo significa proteggere la propria terra.

Rivendicare la terra… distruggendola

La distruzione degli ulivi e delle terre coltivabili non ha colpito solo la Palestina, ma anche il sud del Libano. Recenti investigazioni mostrano che l’Idf ha usato così tanta artiglieria al fosforo bianco nel conflitto che si sta gradualmente sviluppando sul confine israelo-libanese, che oltre quarantamila acri di terra coltivabile sono ora bruciati e resi incoltivabili. Centinaia di agricoltori libanesi e le loro famiglie sono stati sfollati dopo aver perso la loro principale fonte di reddito: uliveti.

Con ogni ulivo che viene bruciato, sradicato e vandalizzato, emerge una verità più vasta: da una parte, c’è chi rivendica la terra come propria, proteggendola e curandola con amore; dall’altra, c’è chi la rivendica come propria, distruggendone la natura e sradicando la storia agricola. Le parole di Omar, il contadino i cui uliveti sono stati travolti dai bulldozer dei coloni, racchiudono questo pensiero con poesia:

Abbattono l’albero, si scontrano sulla pietra, distruggono la terra: combattono tutto ciò che è una testimonianza della storia palestinese. Vogliono cambiare il volto della nostra terra perché temono la verità che contiene. Ma noi abbiamo un’arma che loro non possono avere, con la quale resistiamo a tutti i loro tentativi di cacciarci: l’amore ancestrale e il dovere di proteggere tutto ciò che cresce sul suolo palestinese. La Palestina è nostra madre e non la abbandoneremo mai.

Questo impegno alla resistenza è esattamente ciò che Israele sta letteralmente cercando di sradicare.

Carolina S. Pedrazzi è giornalista e fotografa freelance, si occupa di Medio Oriente. Ha studiato Scienze Politiche a Sciences Po Paris ed ora vive a Beirut.

16/11/2023 https://jacobinitalia.it/

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