Palestina: un popolo come pochi altri
Foto: teleSUR
di Carlos Aznarez
Come ha detto uno studioso della causa palestinese, non tutto è iniziato il 7 ottobre, sono decenni di massacri accumulati, sempre compiuti dallo stesso boia, ma ci sono anche molti anni di resistenza e resilienza contro l’invasore.
Sono la cosa più vicina a una corrente umana che si sposta di nuovo dal sud e dal centro al nord di Gaza, percorrono la strada di Al Rachid, ma questa volta è diversa dalle precedenti, quando lo facevano sopportando i bombardamenti o il fuoco dei cecchini israeliani che si “divertivano” a prendere di mira i loro corpi emaciati dalla carestia. Ora, questo fiume che scorre lungo strade piene di ostacoli ha una forza tale da essere in grado di perforare qualsiasi muro di contenimento. E inoltre, i suoi protagonisti sono intrisi di dosi indissimulabili di ottimismo.
Eccoli, come se adempissero a un messaggio biblico, donne, uomini, vecchi, vecchi, ragazzi e ragazze. Eccoli, la maggior parte di loro mostra alle telecamere le due dita a V di Victoria, camminano nella speranza che questa opportunità sia quella definitiva, anche se i più veterani dubitano che il nemico presto non sarà più feroce con loro, come è immancabilmente accaduto negli ultimi 76 anni di occupazione. Come ha detto uno studioso della causa palestinese, non tutto è iniziato il 7 ottobre, sono decenni di massacri accumulati, sempre compiuti dallo stesso boia, ma ci sono anche molti anni di resistenza e resilienza contro l’invasore. Il 7 è davvero un potente passo avanti nella costruzione palestinese di un’offensiva liberatrice, da qui l’odio mostrato dai sionisti nel contrattacco.
È in questa storia di molti anni che si spiega il trambusto contagioso di questo ritorno, come se coloro che si sono posti l’obiettivo nel nord della Striscia rappresentassero il milione e mezzo che si trova nella diaspora. Sono veri eroi ed eroine, perché essendo emersi dalle viscere dell’Olocausto contro il loro popolo, portano sulle spalle, sulla testa e sulla schiena quel poco che è rimasto dopo tanti bombardamenti, che non solo hanno causato decine o centinaia di migliaia di omicidi, ma hanno anche demolito le loro case più e più volte. Marciano, nonostante tutto, e lo commentano tra di loro per darsi forza a vicenda, con la gioia di “tornare a casa”, anche se questa definizione è solo un’espressione di desiderio. Ci sono poche case in piedi in tutta Gaza, dato che quasi il 90 per cento è stato colpito da esplosivi di droni, bombe di aerei, fuoco di carri armati o navi israeliane. Ma poco importa, “casa” per i segni millenari dell’identità palestinese è, come per ogni popolo autoctono, la terra e tutto ciò che di naturale la circonda.
Passo dopo passo, questa gigantesca dimostrazione di sopravvissuti cammina come possono, alcuni aiutati da stampelle che sostituiscono le gambe mancanti, un altro tiene pesanti fasci con un solo braccio, perché il resto è invalido dalle ustioni. Continuano ad avanzare in fretta, tirando piccoli carretti dove hanno localizzato il nonno o la nonna che a malapena riescono a muoversi. Evitano i detriti, evitano gli immensi crateri aperti dalle bombe sioniste, si prendono cura gli uni degli altri, come segno di quell’inesauribile solidarietà dimostrata in tanti giorni vissuti. A volte, una famiglia si ferma per occuparsi delle richieste del più piccolo dei due figli ancora vivi (“il maggiore, di 11 anni, è morto con lo zio dopo un bombardamento a Khan Yunis”, dice la madre), e dopo la pausa, vanno avanti all’infinito. Un bambino di appena 5 anni, va con il suo gattino in braccio, accanto a un’anziana donna che, aiutata da un rudimentale bastone, cerca di non cadere sotto il peso di un’enorme borsa di vestiti che porta sulla schiena. Sono pochi quelli che hanno il privilegio di spostarsi in veicoli ai quali portano materassi e coperte da se stessi o da altri vicini. Di tanto in tanto, i manifestanti escono dalla folla, desiderosi di abbracciare o semplicemente dare il cinque ai miliziani della Resistenza, che in uniforme e con le armi puntate a terra ricevono gli auguri di quel popolo grato per la loro lotta.
All’improvviso, quasi astraendo dal significato agrodolce di questa mobilitazione, si possono osservare anche abbracci commoventi tra coloro che si scoprono tra la folla e verificano che “non sono morti” come tanto temevano. Lo dicono ad alta voce, si salutano ripetendo i loro nomi e provocano gli altri a unirsi alla piccola celebrazione. Sono residenti in diverse zone, alcuni dei quali parenti che si credeva fossero sepolti sotto le macerie, ma che sono lì a marciare, immaginando di trovare in questa parte buia del tunnel la possibilità di ricostruire le loro vite.
Sono centinaia di migliaia di persone che, a volte, per tirarsi su di morale, cantano o gridano i tradizionali slogan di sostegno alla Resistenza, come è stato dimostrato il giorno in cui i soldati dell’occupazione sono stati liberati. Un capitolo a parte sono quelle migliaia di volontari della Protezione Civile, che il governo di Hamas a Gaza ha piazzato lungo la strada e al traguardo, per assisterli e garantire che non ci siano più vittime, dato che ci sono molte persone malate tra coloro che si sforzano di spostarsi.
Loro stessi, questi camminatori laboriosi, sono anche il miglior esempio di cosa significhi resistere. Non hanno mai pensato di lasciare la loro amata terra. Non hanno esitato nemmeno quando, esausti per aver visto tanta morte intorno a loro, o per essersi miracolosamente salvati in quei giorni in cui le loro tende improvvisate erano state rase al suolo dal fuoco delle bombe al fosforo, hanno stretto i denti e hanno continuato a lottare per vivere. Sono gli stessi che hanno ignorato gli ordini del nemico che li ha indotti a marciare verso l’Egitto o la Giordania. Non hanno mai vacillato nel loro orgoglio di sentirsi palestinesi e, raccogliendo le quattro cose che erano state salvate dal fuoco o dalla demolizione, si sono spostati da nord a centro, dal centro a sud e così via all’infinito tutte le volte che era necessario. Così, si resero conto giorno dopo giorno che la vittoria più grande consisteva proprio nel non abbandonare il luogo in cui i loro antenati costruirono, con la stessa tenacia e coraggio che vi misero ora, quel baluardo di dignità chiamato Gaza. Che è lo stesso che dire Jenin, Nablus, Hebron, Tulkarem, Gerusalemme e qualsiasi enclave resistente nella Palestina occupata.
Stanno già arrivando, ci sono lacrime negli occhi di molti, e di nuovo quei sentimenti ambivalenti di tristezza e gioia per aver vinto un’altra piccola grande battaglia, quella del Ritorno.
30/1/2025 https://www.telesurtv.net/blogs/
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