Per Pietro Ichino l’art. 18 è un …….carciofo! Oramai non se ne può più. La mia sensazione è che, purtroppo, siano in tanti a cercare d’imporre che (oggi) tutto debba sottostare alle leggi di mercato, anche la dignità di un lavoratore

Molti, tra quegli oltre due milioni di persone che il 23 marzo 2002 erano con me al Circo Massimo, per protestare contro la riforma del lavoro “targata” Berlusconi, forse pensavano che fosse finita lì. Che il fronte padronale e coloro che ne sostengono le ragioni (e, spesso, anche i più reconditi interessi), potessero definitivamente “deporre le armi” di fronte all’imponente “onda d’urto” prodotta dalla Cgil!

Purtroppo, è opportuno riconoscere che si trattava solo dell’ultimo – glorioso – atto di quella che Luciano Gallino, con sagace intuizione, definisce: ”La lotta di classe, dopo la lotta di classe”.

Infatti, secondo Gallino “La caratteristica saliente della lotta di classe alla nostra epoca è questa: la classe di quelli che da diversi punti di vista sono da considerare i vincitori sta conducendo una tenace lotta di classe contro la classe dei perdenti. In sostanza non è affatto venuta meno la lotta di classe. Semmai, la lotta che era stata condotta dal basso per migliorare il proprio destino ha ceduto il posto a una lotta condotta dall’alto per recuperare i privilegi, i profitti e soprattutto il potere che erano stati in qualche misura erosi nel trentennio precedente”, caratterizzato da numerose conquiste sindacali, a partire dallo Statuto (corsivo mio). Una sorta di fiume carsico; che attendeva il realizzarsi delle condizioni più favorevoli per riaffiorare.

Però, l’aspetto (forse) più tragico – direi paradossale, per chi immaginava ancora il Partito democratico come espressione della sinistra nel nostro Paese – è rappresentato dal fatto che quanto non era riuscito a Berlusconi, è stato consentito, con il determinante sostegno del Pd, a colui che oggi molti considerano la “fotocopia meglio riuscita” e degno successore dell’ex Cavaliere; il giovane Matteo Renzi.

Di conseguenza, in ossequio a uno dei più famosi aforismi del Faraone Akhenaton: “Il saggio dubita spesso e cambia idea. Lo stupido è ostinato, non ha dubbi. Conosce tutto fuorché la sua ignoranza” (e, aggiungerei, malafede), ad appena due anni da una profonda revisione dell’art. 18 dello Statuto – che, nei fatti, ne ha sostanzialmente e definitivamente stravolta una rilevante parte – siamo di nuovo al punto di partenza.

I “soliti noti” – tra i quali ne emergono di particolarmente “ostinati” – sono, naturalmente: politici (di destra e dell’ormai ex Centrosinistra), parti datoriali (generalmente intese), esperti (pochissimi tra gli “indipendenti” e molti tra quelli che amo definire “pret à porter”) e, purtroppo, illustri colleghi della Camusso!

Si consideri solo che, come ho già detto in altra sede, il Segretario generale della Cisl, prima ancora di dichiarare la propria adesione a un incontro unitario (richiesto dalla Cgil) – per organizzare una qualche forma di protesta nei confronti dell’Esecutivo che si accingeva a intervenire ancora sull’art. 18 – si preoccupava di rassicurare il governo circa la sua indisponibilità a uno sciopero generale!

Contemporaneamente, quello della Uil – evidentemente di ritorno da una lunga ed estenuante tournée su Marte e Venere – preannunciava di voler prima aspettare di conoscere le intenzioni dell’Esecutivo(!).

L’aspetto per qualche verso risibile – se non fossero in gioco, insieme all’art. 18, il rispetto della dignità e le future condizioni di vero e proprio servilismo dei lavoratori – è che, rispetto a questo punto dello Statuto, si sente spesso parlare di: problema di carattere esclusivamente politico, discussione essenzialmente ideologica, difesa di un “totem” della sinistra, “dannazione” della destra, ecc. Non abbiamo invece capito, noi nostalgici – ecco un’ulteriore categoria dei pro art. 18 – che, in sostanza, la normativa di cui alla tutela “reale” è considerata (da molti) al pari di un comune e anonimo carciofo; al quale, evidentemente, quando risulti poco agevole “segare il gambo”, si tagliano (di volta in volta) le foglie.

E’ questa, in effetti, la prima cosa che viene in mente dopo la lettura di un’intervista rilasciata qualche giorno fa da Pietro Ichino al quotidiano “Avvenire”!

Alla precisa domanda dell’intervistatore: ”Giusto prevedere anche la reintegrazione nel caso dei licenziamenti disciplinari ingiustificati”? Ichino risponde che il licenziamento di tipo disciplinare è giustamente considerato diverso dagli altri, perché: ”Porta con sé uno stigma negativo sulla persona licenziata”.

“Alleluia”! Verrebbe da esclamare a un lettore superficiale.

Infatti, l’ex senatore Pd evidenzia che nel suo progetto di “Codice semplificato” è stata prevista la possibilità della reintegra quando risulti che il fatto non sussiste. Altro evidente sospiro di sollievo del lettore!

Però, ciascuna delle parti – recita il suddetto Codice – avrà la facoltà di optare per l’indennità di 15 mensilità, sostitutiva della reintegrazione!

“E voilà”; ecco che il “carciofo” viene privato di un’altra foglia. Il licenziamento disciplinare – contrariamente a quanto sostenuto da Ichino al rigo appena precedente – non sarà più considerato diverso dagli altri; quindi, anche a scelta del datore di lavoro e non più solo del lavoratore, indennizzabile.

Tra l’altro, è paradossale rilevare che quanto previsto dal Codice di Ichino sia, addirittura, peggiorativo di quanto già previsto dall’art. 18 dopo la “Fornero”.

Infatti, la nuova normativa – introdotta appena due anni fa – prevede che, di fronte alla “insussistenza del fatto”, il giudice procede alla reintegra e condanna il datore di lavoro al pagamento di un’indennità risarcitoria che va da un minimo di cinque a un massimo di dodici mensilità. Salvo la richiesta del lavoratore di sostituire la reintegra nel posto di lavoro con un’indennità pari a quindici mensilità dell’ultima retribuzione.

Evidenzio che solo il lavoratore ha la facoltà di optare per l’indennità, piuttosto che per la reintegra.

Ichino invece, mentre afferma che è giusto considerare il licenziamento disciplinare “diverso dagli altri”, contemporaneamente – attraverso il c.d. “Codice semplificato” – prevede che, in caso d’insussistenza del fatto contestato al lavoratore, il datore di lavoro possa scegliere tra la reintegra (con la “Fornero” ancora obbligatoria) e il pagamento di un’indennità pari a quindici retribuzioni!

In altro momento, appellandosi (in modo del tutto indiretto) al semplice “buon senso” del lettore emotivamente/medio, cui sono “mirate” molte News del suo sito, Ichino richiama il caso – per lo meno inconcepibile, dal suo punto di vista – di un bancario licenziato per motivi disciplinari e reintegrato a seguito di un giudizio di merito.

Riporta così che: a fronte di una truffa contestata a un dipendente (da parte della Banca), lo stesso sia stato assolto perché il giudice ha ritenuto che la colpevolezza fosse probabile, ma non certa. Quindi, in applicazione di un criterio normalmente applicato nel giudizio “penale” – l’insufficienza di prove equivale a non aver commesso il fatto – il giudice ha disposto la “reintegra” del lavoratore. Conclude, con un amletico dubbio: ” Ma ora la Banca dovrebbe dunque tenersi un impiegato che è “probabilmente”, anche se non sicuramente, un truffatore, e continuare ad affidargli i soldi dei clienti”?

Personalmente, non condivido questo modo di porre le questioni.

Premesso che non trovo corretto sollecitare l’emotività dell’interlocutore di turno al fine di acquisirne il consenso, continuo a condividere quell’elementare principio di civiltà in virtù del quale deve prevalere sempre la presunzione d’innocenza.

Tra l’altro, in coerente applicazione della logica cui riconduce l’errato reintegro del bancario “sospettato”, come avrebbe dovuto atteggiarsi (e operare per il futuro) il Senatore Ichino di fronte richieste di arresto di suoi colleghi senatori? Dimenticare che nel nostro Paese non si è colpevoli fino a quando ciò non sia stato sancito da una sentenza passata in giudicato?

La mia sensazione è che, purtroppo, siano in tanti a cercare d’imporre che (oggi) tutto debba sottostare alle leggi di mercato.

Di conseguenza, per costoro, ogni cosa ha il suo prezzo; anche la dignità di un lavoratore che, all’affermazione di un principio – per mancanza di una giusta causa o insussistenza del fatto addebitatogli, con conseguente (legittima) “reintegra” – dovrebbe preferire un qualsiasi risarcimento di natura economica.

Duole, soprattutto, rilevare che operano in questo senso anche soggetti che mostrano la loro spudoratezza sostenendo di avere a cuore le sorti dei lavoratori, mentre, in realtà, operano – talvolta anche in modo subdolo – in favore d’interessi di ben altra natura.

Concludo, nel tornare al bancario licenziato e poi reintegrato con disposizione del giudice di merito, con due brevi considerazioni.

L’una è relativa al fatto che, grazie ad appena un briciolo di onestà intellettuale (rifuggendo dalla retorica gratuita) e considerando la non eccelsa conoscenza – da parte del lettore medio italiano, anche quello delle News – della Legislazione del lavoro italiana, sarebbe stato opportuno (anche) evidenziare che la Banca – una volta accolta la disposizione del reintegro – non avrebbe avuto alcun problema, in applicazione del Ccnl, nell’adibire il lavoratore “sospettato” ad altre mansioni che non prevedessero il maneggio “dei soldi dei clienti” per i quali tanto si preoccupa Ichino.

La seconda dovrebbe concorrere a finalmente “smascherare” questi finti “riformisti”!

In effetti, un colpevole silenzio circonda quello che è sin troppo noto a Ichino e a tutti gli “addetti ai lavori”. Si fa un gran parlare del numero dei ricorsi al giudice (da parte dei lavoratori) per il rispetto dell’art. 18, così come si disserta tanto relativamente al numero dei giudizi e delle reintegre disposte.

Fino a ora, però, nessuno dei sostenitori del “ridimensionamento” – se non della completa e definitiva cancellazione dell’art. 18 – ha mostrato sufficiente onestà intellettuale da ammettere che, in realtà, una volta che il giudice abbia disposto la reintegra del lavoratore ingiustamente licenziato, non esiste, purtroppo, alcuna norma di legge che obblighi il datore di lavoro a rispettare il dispositivo!

Infatti, come egregiamente (anche di recente) esposto da Umberto Romagnoli – un esperto “al di sopra di ogni sospetto” – “La reintegra o è spontanea o non ha luogo e non può compiersi a causa dell’irreperibilità nell’ordinamento processuale di appropriati mezzi di coazione diretta capaci di vincere il rifiuto ad adempiere del condannato (cioè il datore di lavoro). Pertanto, il ripristino, dal giorno del licenziamento, del rapporto di lavoro per opera della sentenza non è completo, tranne che dal punto di vista retributivo e previdenziale. Come dire che la stabilità garantita dall’art. 18 è più immaginaria che reale”!

Ergo, per chiudere ancora con il suindicato bancario, non risponde a verità – come, invece riportato dalla News – che la Banca dovrà “Dunque tenersi un impiegato che è probabilmente, anche se non sicuramente, un truffatore”. Le sarà sufficiente non adempiere la disposizione di reintegra e nessun altro giudice potrà mai obbligarla – in assenza di una specifica norma di legge – a rispettarla!

Renato Fioretti

Collaboratore redazionale del periodico Lavoro e Salute

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