Pubblicato il 2° Dossier dell’Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole e delle università

Pubblichiamo il 2° Dossier dell’Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole e delle università, stilato dal relativo gruppo di lavoro dopo un anno di documentazione attiva e di segnalazioni tramite il sito. Qui il testo del 1° Dossier pubblicato in varie testate nel marzo 2023.

“Tu sei il territorio conteso, ovunque tu sia, chiunque tu sia.”
(“NATO’s Sixth Domain of Operations”, NATO Innovation Hub [Ihub], settembre 2020)

Nel suo primo anno di attività l’Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole e dell’università ha denunciato le tante iniziative che vedono la presenza dei militari nella formazione e nella ricerca. La scelta – operata a livello interministeriale – di diffondere i “valori” militaristi è tanto vasta e pervasiva da soppiantare il valore civile della pace solennemente affermato nella nostra Costituzione.

Questo Dossier 2 cerca di rendere conto in sintesi di questa situazione, di indicare il quadro teorico da cui sono ispirate, e di suggerirne un altro alternativo.

Sappiamo bene che, oltre alle iniziative militariste di cui ci è giunta notizia, ne esistono molte altre, che purtroppo nella routine scolastica sono ormai percepite come normali, e catalogate nelle ripetitive rubriche di “legalità”, “contro il bullismo e il cyberbullismo”, “robotica”, “PCTO” (nelle caserme e nelle industrie belliche) ecc. Su una simile routine scolastica l’Osservatorio ha inteso stimolare una riflessione critica in docenti e personale della scuola, studenti, genitori.

In questo primo anno di attività l’Osservatorio ha fatto un lavoro di ricostruzione del contesto in cui viene promossa così insistentemente questa “cultura della difesa”, un contesto che possiamo definire aziendalistico (in quanto la scuola offre ai giovani “utenti” dei “servizi”, e li prepara ad essere parte di un certo sistema economico e di un certo “mondo del lavoro”), un contesto che ha scelto pervicacemente la guerra per perseguire dei fini di controllo e di profitto.

Quale guerra oggi?

Serena Tusini ha messo in evidenza, prima di tutto, le nuove modalità della guerra (La militarizzazione delle scuole, la cultura della difesa e la forma della guerra, “Sinistrainrete”, 28 luglio 2023, Serena Tusini: La militarizzazione delle scuole, la cultura della difesa e la forma della guerra (sinistrainrete.info)).

Negli ultimi decenni abbiamo visto dispiegarsi guerre asimmetriche: le molte guerre che si sono prodotte (ex Jugoslavia, Kosovo, Afghanistan, Iraq, Libia) sono state guerre giocate sul grande vantaggio tecnologico del mondo occidentale. Questa tipologia di guerra non richiedeva un esercito ampio, bastavano dei top gun, super addestrati e in grado di utilizzare le tecnologie avanzate di cui gli avversari non disponevano; in alcuni casi queste guerre lampo potevano anche trasformarsi in guerre a bassa intensità e/o guerre ibride, se le regioni destabilizzate lo richiedessero, e potevano rimanere tali per molti anni, per poi magari sfociare in ritirate precipitose, come accaduto in Afghanistan. In questi scenari le perdite umane occidentali sono state, nel complesso, decisamente contenute e spesso maturate nella fase successiva alla guerra guerreggiata.

Oggi questa tipologia di guerra è profondamente messa in discussione: le prime avvisaglie si sono viste con la guerra in Siria, quando nel 2014 la coalizione internazionale a guida americana, che ha l’obiettivo di rovesciare Assad, trova sulla sua strada il supporto che ad Assad fornisce la Russia e anche quello della Cina (che invia delle navi militari), tanto che gli USA annunciano il ritiro nel 2018, mentre Assad continua ancora oggi a guidare un paese profondamente distrutto. Non una guerra lampo dunque, ma una guerra lunga, che vede pericolosamente contrapposte le principali forze militari mondiali.

La forma della guerra dunque è cambiata: non siamo più di fronte a guerre asimmetriche; oggi la guerra è scesa a terra e recupera i caratteri classici di guerra tra nazioni dello stesso peso: i relativamente pochi top gun sono affiancati da decine e decine di migliaia di soldati, la simmetria delle forze in campo richiede la conquista del terreno palmo a palmo e, per quanto la propaganda sia una fitta nebbia dentro la quale è difficile districarsi, vediamo che il numero dei morti, e precisamente dei morti militari, è enorme e non bastano più i contractor, mercenari organizzati in vere e proprie compagnie di ventura contemporanee, che abbiamo imparato a conoscere.

Di fronte a una guerra che tende ad essere una guerra totale, e che si prospetta come un lungo conflitto guerreggiato, è assolutamente necessario l’appoggio delle popolazioni delle nazioni coinvolte perché i cittadini devono essere pronti a sopportare i sacrifici che la guerra comporta da un punto di vista economico: l’obiettivo del 2% del PIL e il conseguente disinvestimento in stato sociale indica l’enormità delle risorse economiche coinvolte. È dunque imprescindibile una forte azione di propaganda: è necessario che i cittadini riattivino una identificazione con l’esercito, percependolo come parte integrante e positiva della nazione. Riattivare i “valori” fondanti delle forze armate è proprio l’obiettivo che la Difesa ha individuato, e le scuole sono il terreno da arare.

La Difesa da tempo sta investendo molto, anche economicamente, nel rapporto con la società civile tutta. Il ministro Crosetto ha recentemente rilanciato, con l’istituzione del Comitato per lo sviluppo e la valorizzazione della cultura della difesa, che è stato istituito il 6 marzo 2023:

“La diffusione di una cultura della Difesa è strumento essenziale di implementazione del Programma del Ministro della Difesa non solo per valorizzare al massimo l’operatività dello strumento militare nazionale ma, altresì, per diffondere sia a livello istituzionale sia nella collettività, i valori che connotano l’agire e l’essere del personale della Difesa”. Presieduto dal Ministro della Difesa, è composto da: Geminello Alvi (economista), Giulio Anselmi (Presidente dell’agenzia di stampa “ANSA”), Pietrangelo Buttafuoco (scrittore), Anna Coliva (storica dell’arte), Pier Domenico Garrone (Consigliere del Ministro), Michèle Roberta Lavagna (Professore ordinario del Politecnico di Milano, Dipartimento di Scienze e Tecnologie Aerospaziali), Giancarlo Leone (Presidente Associazione Produttori Audiovisivi), Angelo Panebianco (editorialista), Vittorio Emanuele Parsi (Professore ordinario dell’Università cattolica del Sacro Cuore e Direttore dell’Alta Scuola di Economia e Relazioni internazionali della medesima Università), Angelo Maria Petroni (Segretario generale Aspen Institute), Gianni Riotta (editorialista), Fabio Tamburini (Direttore de “Il Sole 24 ore”), Antonio Zoccoli (Professore ordinario dell’Università di Bologna, Presidente dell’Associazione Big Data), Filippo Maria Grasso (Direttore Relazioni Istituzionali di Leonardo).

L’altro motivo, preciso, concreto, stringente, per il quale la forma contemporanea della guerra deve coinvolgere le nostre scuole è – come abbiamo visto – il nuovo bisogno di truppe da parte degli eserciti. Negli ultimi anni si sta riscontrando un progressivo invecchiamento del personale graduato e difficoltà nel ricambio generazionale attraverso il reclutamento. Mentre la partecipazione ai concorsi di chi è già in carriera supera il numero di posti disponibili, nel reclutamento dei volontari in ferma prefissata di un anno (i cosiddetti VFP1) si registra la mancata copertura di parte dei posti messi a concorso. Esaminando i dati del reclutamento, si constata che dal 2013, a fronte di un numero pressoché costante di domande presentate per la partecipazione ai concorsi VFP1, si assiste a un aumento della mancata presentazione degli aspiranti presso i centri di selezione, che nel 2017 ha raggiunto la percentuale del 59 per cento dei convocati. In altre parole, il vincitore non si presenta presso i centri di incorporamento oppure rinuncia entro quindici giorni. Altro dato significativo, il 70% dei candidati è originario del sud Italia.
Non ci sono sfuggiti i numerosi riferimenti fatti da personalità politiche italiane per l’istituzione di una mini-naja in Italia, che dovrebbe iniziare come periodo di addestramento volontario e darebbe al nostro Paese una riserva militare ausiliaria formata da giovanissimi. Dopo l’addestramento tornerebbero alla vita civile ma in caso di necessità avrebbero l’obbligo di leva. Nel giorno della festa della mamma 2023, al raduno nazionale degli Alpini a Udine, Meloni, La Russa e Crosetto hanno dichiarato che la proposta della mini-naja verrà presto discussa in Parlamento.

La tendenza è presente in tutta Europa e in molti Paesi del mondo. Per esempio in Russia e in Ucraina i minori di 18 anni vivevano immersi in una cultura militarista già prima del 2014 e della rivoluzione di Maidan, e ancora oggi la loro formazione è orientata al fanatismo della Patria e all’odio per il nemico. Appartiene alla storia dei totalitarismi, e la riconosciamo oggi, la trasformazione del sentimento popolare attraverso la revisione dei libri di testo scolastici e delle programmazioni dei musei, la censura, le “lezioni di coraggio” tenute dai veterani nelle scuole, le feste patriottiche che invadono le città, i corsi di addestramento dove si apprende a usare le armi, il principio della guerra giusta e il dovere di sacrificare la vita individuale per la Nazione. Schiere di bambini vengono introdotti in questo sapiente programma, massicciamente finanziato per irreggimentare le giovani generazioni. 
La Polonia e la Francia in forme diverse dispongono di programmi paramilitari rivolti ai minori di 18 anni.

“Crediamo però che, dopo trent’anni di neoliberismo, dopo che le classi subalterne sono state abbandonate a se stesse da una politica di feroci privatizzazioni che ha ingrassato i grandi e impoverito i medi e i piccoli, non sarà facile centrare l’obiettivo di riavvicinare i cittadini a una patria, a una nazione che viene sempre più percepita come del tutto staccata dagli interessi materiali delle classi subalterne e sempre più espressione di lobby di potere con qualche differente colore politico, ma sostanzialmente espressione dei medesimi interessi materiali. Quali cittadini potranno seguire una nazione i cui rappresentanti sono ormai votati da poco più della metà degli aventi diritto e sono percepiti, giustamente, a una distanza siderale dai bisogni materiali della grande maggioranza? Il neoliberismo ha prodotto uno iato, sta facendo scricchiolare lo stesso modello di democrazia rappresentativa borghese; in questo iato i pacifisti devono sapersi inserire e lavorare affinché l’escalation militare sia fermata, affinché i guerrafondai che soffiano sul fuoco di una nuova guerra mondiale si sentano le spalle scoperte e temano che l’innesco di una guerra di proporzioni molto ampie possa far vacillare il precario piedistallo sul quale poggiano oggi le malate democrazie occidentali” (Serena Tusini).

La guerra cognitiva

Dal 2012, anno della sua fondazione – come ci informa Jonas Tögel, ricercatore ed esperto di soft power all’Università di Ratisbona – il Nato Innovation Hub è il think tank in cui “esperti e inventori di ogni dove lavorano insieme per risolvere le sfide della NATO”. Su questi “esperti e inventori”, per quanto ci riguarda, sospendiamo ogni giudizio etico e politico, ma osserviamo che il loro lavoro pone la vecchia e oggi trascurata questione del rapporto fra conoscenza e potere. Questi esperti e inventori (i quali non sono sottoposti al vaglio del dibattito scientifico, ma producono per un committente: la NATO) hanno scelto di utilizzare la loro intelligenza, il loro sapere e le abbondanti risorse finanziarie della NATO (soldi pubblici) per mettere a punto pratiche di manipolazione rivolte non necessariamente contro un “nemico”, ma contro tutte le popolazioni coinvolte nei conflitti e di fatto contro l’opinione pubblica mondiale. Tutto ciò è il nucleo di novità contenuto nella definizione cognitive war, la guerra cognitiva: la guerra nelle menti.

“La guerra cognitiva può essere l’elemento mancante che consente la transizione dalla vittoria militare sul campo di battaglia a un duraturo successo politico. Il “dominio umano” potrebbe benissimo essere il fattore decisivo (…). I primi cinque teatri di operazioni [terra, mare, aria, spazio, cyberspazio] possono portare a vittorie tattiche e operative, ma solo il teatro umano di operazioni può portare alla vittoria finale e completa.” (François du Cluzel, Cognitive Warfare, Innovation Hub 2020, p. 36, 20210113_CW Final v2 .pdf (innovationhub-act.org) ).


L’anomalia a cui assistiamo sta nel fatto che su simili idee deliranti e di fatto antidemocratiche non c’è dibattito pubblico. Condividiamo quindi le parole di Jonas Tögel: “Considerando che la guerra cognitiva è già in atto e le più moderne tecniche di manipolazione sono attualmente utilizzate nella guerra in Ucraina per dirigere i pensieri e i sentimenti delle popolazioni di tutte le nazioni coinvolte nella guerra, un chiarimento sulle tecniche di soft power della guerra cognitiva sarebbe apprezzato e dovrebbe essere più urgente che mai. (Jonas Tögel: “Guerra cognitiva”: la NATO sta pianificando una guerra per le menti delle persone (sinistrainrete.info), 2022)

Roberto Trinchero (Contro la guerra cognitiva. Educare allo scetticismo attivo, in «Media Education», vol. 9, Edizioni Centro Studi Erickson, Trento 2018) ha analizzato gli elementi costitutivi della guerra cognitiva, elementi che sono messi in atto in modo coordinato affinché risultino efficaci e costruiscano quella “rappresentazione” che indurrà le popolazioni a pensare in un certo modo e non in un altro:

  • la pubblicità, ossia diffondere messaggi il cui scopo molto chiaro è quello di influenzare
  •  la deception, ossia nascondere i fatti realmente accaduti attraverso varie forme di depistaggio
  •  la disinformazione, ossia diffondere notizie infondate al fine di danneggiare l’immagine             pubblica di un avversario
  •  l’intossicazione, ossia fornire all’avversario informazioni sbagliate allo scopo di fargli prendere decisioni errate
  •  la propaganda, ossia impostare la comunicazione di eventi in modo da convincere il maggior numero possibile di persone della bontà di idee, ideologie o scelte.

Notiamo che pubblicità e propaganda sono concetti che si mantengono su un livello di legittimità nella concreta dialettica degli interessi o delle ideologie; ma notiamo anche che con i nuovi termini deceptiondisinformazioneintossicazione si varca una soglia pericolosa, un limite etico, e ci si trova nell’ambito dell’illegalità e persino della criminalità. Chi inganna, disinforma, depista o intossica opera in un regime di licenza eccezionale, tipico solo dei servizi segreti – o tipico del terrorismo. Invece stiamo parlando dei documenti pubblici di una potente organizzazione militare che ha deciso di operare a livello globale, che è finanziata dagli Stati e che ha annientato il ruolo dell’ONU implementando scontri bellici invece di rapporti diplomatici, e perseguendo un inquietante ordine planetario invece di civili rapporti di convivenza e collaborazione globali.

È chiaro che i canali che hanno permesso l’esplodere di queste pratiche di guerra cognitiva sono quelli forniti dai nuovi social media. Ma è un luogo comune tendenzioso, anzi una fake news, ripetere che sia la cosiddetta controinformazione a generare le fake news. La controinformazioneusa i canali dei social, ma valorizzando così l’aspetto democratico e pluralista della rete. Le fake news, invece, come abbiamo visto, sono una tecnica di disinformazione e di intossicazione praticata da potenti istituzioni, statali o private che siano. Il problema culturale e democratico è che i maggiori media (stampa, radio, TV) sono allineati sulle direttive della guerra cognitiva e che il giornalismo (si pensi a quello italiano in particolare) ha perso, salvo rari casi, ogni indipendenza e libertà di indagine.

Sarebbero da indagare in questa prospettiva di guerra cognitiva le breaking news di atroci uccisioni, massacri, genocidi che periodicamente tutti i media diffondono con un’inflazione dell’orrore che punta all’emotività momentanea e non all’approfondimento di una “oggettività” complessa e più consolidata. Certamente la guerra è orrore ed è scandalo. Ma che l’opinione pubblica sia portata ad indignarsi in certi momenti e non in altri è uno dei fenomeni prodotti dalla deception e dalla propaganda della guerra cognitiva.

Altro esempio di operazione di guerra cognitiva è la metafora dell’invasione di migranti a proposito dei flussi migratori, metafora a cui gli italiani sono da anni abituati, e che è sostanzialmente una fake news se la si verifica sulla base dei dati numerici e delle mete che i migranti intendono effettivamente raggiungere. A che cosa serve definire con questa metafora il fenomeno delle migrazioni? Serve a tacere sulle condizioni di sfruttamento neocoloniale delle risorse dell’Africa, a mantenere lo status quo geopolitico, a militarizzare il fenomeno con risposte come quelle del progetto Frontex.

Alex Zanotelli, che ha recentemente denunciato il silenzio della stampa italiana sull’Africa, l’ha definito un sistematico e decennale fronte di guerra, una guerra ai poveri, una guerra ai migranti: “Ricordiamoci che siamo dentro a un sistema economico-finanziario che non fa altro che guerra. Un sistema mondiale, più finanziario che economico, che coinvolge tutti, che permette al 10% della popolazione mondiale di mangiarsi il 90% dei beni di questo mondo. La prima guerra che facciamo è contro i poveri, per impoverirli meglio, perché non si è poveri per caso, i sistemi economico-finanziari creano la povertà, con le conseguenze amare che conosciamo” (La pace: unica alternativa, in La scuola laboratorio di pace, Aracne Editore, 2023, p. 144).

Se questo è lo stato delle cose, siamo di fronte a una guerra contro i cittadini e le cittadine, considerati come “territori contesi”, da conquistare: quindi considerati come ipotetici nemici nel momento in cui non aderiscano al progetto bellico….continua in pdf.

Scarica il pdf del 2° Dossier completo.

https://osservatorionomilscuola.com

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