Ruoli, corpi e sentimenti ai tempi delle relazioni online. Che cos’è la realtà
Il cinema di Adele Tulli racconta con inventiva e senza retorica la condizione di un’umanità immersa nella realtà al confine tra mondo fisico e digitale
Nel suo ultimo lungometraggio, Real (2024) – proiettato in anteprima al Locarno Film Festival – Adele Tulli, regista e docente di cinema che da tempo porta avanti una ricerca sperimentale nel campo della cultura visuale contemporanea, ci offre il ritratto di una specie che ha fatto del digitale lo spazio d’elezione per coltivare intimità e sentimenti, allo stesso tempo alle prese con un corpo di carne che ne simboleggia quasi un retaggio ancestrale. Sono corpi esigenti, quelli che restano saldi dall’altro lato degli schermi retroilluminati, talvolta messi a tacere o dimenticati, eppure sempre più sovraesposti e vulnerabili nella materia viva di un pianeta al collasso, dove tecnologie solo apparentemente immateriali hanno un impatto considerevole e preciso sugli ecosistemi.
Dopo un Master in documentario alla Goldsmiths University e un dottorato practice-based alla Roehampton University, Tulli oggi tiene corsi dedicati a teoria e pratica documentaria, cinema sperimentale e cinematografia queer e femminista. I suoi lavori hanno ricevuto riconoscimenti e sono stati proiettati ed esposti a livello internazionale. Le abbiamo rivolto alcune domande per parlare di come le nostre idee su sessualità e relazioni stanno cambiando al confine tra materia e algoritmo.
In Normal esploravi la costruzione dei ruoli di genere attraversando situazioni apparentemente ordinarie. Cinque anni dopo – una pandemia di mezzo e l’entrata a pieno titolo delle intelligenze artificiali nella nostra quotidianità – credi che qualcosa sia cambiato nel modo in cui il genere viene percepito e messo in scena nelle relazioni, o gli schemi in cui siamo intrappolate sono rimasti gli stessi?
Purtroppo ho la sensazione che quando ci confrontiamo con la messa in discussione di norme sociali profondamente radicate, ogni volta che sembrano esserci dei passi in avanti, dei superamenti di vecchi modelli e stereotipi, si verifichino puntualmente anche dei movimenti reazionari che sembrano riportarci indietro, se non proprio al punto di partenza, comunque in condizioni che pensavamo di aver del tutto superato. Penso ad esempio al gravissimo ordine esecutivo emanato da Trump nel giorno del suo insediamento, in cui appellandosi al solito spauracchio mai tramontato dell’ideologia del gender si ripropone di “ripristinare la verità biologica nel governo federale”, di fatto cancellando una gran quantità di diritti acquisiti della comunità Lgbtq+, che se non fosse vero farebbe pensare a un romanzo distopico di Margaret Atwood.

E questo non riguarda solo l’America…
No, di passi indietro di questo tipo mi pare se ne verifichino ad ogni latitudine. Allo stesso tempo, però, vedo anche nuove forme di consapevolezza e resistenza, soprattutto nelle generazioni più giovani, che utilizzano spazi digitali e fisici per rinegoziare continuamente il significato del genere, destabilizzando categorie tradizionali, per ragionare sul carattere intersezionale della violenza, e per sperimentare possibilità inedite di autodeterminazione, di identità e di relazioni più fluide e meno rigidamente codificate. Forse più che un cambiamento lineare, stiamo assistendo a una fase di grande tensione tra spinte opposte, in cui il genere continua a essere un campo di battaglia politico e culturale.
Nel tuo ultimo lavoro, Real, ti immergi nel mondo delle interazioni sentimentali e sessuali, spesso filtrate dalla tecnologia e dai media, fornendo il ritratto scomposto di una specie che si sta evolvendo al confine tra fisico e immateriale. Quali dinamiche ti hanno colpito di più durante la realizzazione del film? E che ruolo pensi abbiano oggi le narrazioni digitali nel modellare il desiderio e le aspettative di intimità?
Durante la realizzazione di Real, ho incontrato persone che vivono relazioni intense e profonde senza mai incontrarsi nel mondo fisico, altre che usano avatar e identità digitali per esplorare parti di sé che nel quotidiano resterebbero sommerse, altre ancora che cercano nell’iper-connessione un surrogato di intimità, trovandosi però spesso di fronte a nuove forme di distanza e solitudine. Gli universi digitali da un lato moltiplicano i possibili immaginari su forme di relazione e di identità e abbattono barriere che fino a poco tempo fa sembravano invalicabili. Dall’altro, però, ci espongono a una continua spettacolarizzazione dell’intimità, che spesso ci porta a confrontarci con standard irraggiungibili e con dinamiche di performatività costante. Il desiderio oggi è forse più fluido che mai, ma è anche immerso in un ecosistema di algoritmi che influenzano ciò che troviamo attraente, chi incontriamo e come ci raccontiamo. Real cerca di porsi alcune di queste domande, senza la pretesa di fornire delle spiegazioni conclusive a questioni così vaste, ma provando ad esplorarne le complessità.

Il cortometraggio Vite parallele – realizzato all’interno del progetto A Safe and Normal Day, coordinato dal Centro Studi e Documentazione Pensiero Femminile APS, e di cui Fondazione Brodolini è partner – nasce dal dialogo con ragazze e ragazzi delle scuole di Torino. Che differenze hai notato tra le nuove generazioni e quelle precedenti nel modo di vivere l’identità e il desiderio? C’è qualcosa che ti ha sorpresa particolarmente?
Lavorare con ragazze e ragazzi nelle scuole è per me sempre un’esperienza intensa che mi stimola e mi stupisce. Mi ha da un lato disorientato come in molti racconti raccolti nel laboratorio emergessero ancora rigidità rispetto a cosa significa essere “maschio” o “femmina”, con le relative pressioni fortissime a conformarsi a modelli prestabiliti. In particolare, il desiderio sembra ancora fortemente regolato da norme implicite: le ragazze parlano di un’attenzione costante alla propria immagine, di un’ansia di adeguarsi a certi standard; i ragazzi, invece, spesso si sentono obbligati a dimostrare sicurezza, spavalderia e controllo. Quello che però mi ha sorpreso in positivo è stata la grande voglia di confrontarsi su questi temi, quasi un bisogno, e l’interesse verso la messa in discussione di questi schemi. Ho percepito grande curiosità e desiderio di decostruire certe narrazioni e provare a riscriverle in modo più personale. Anche se il cambiamento è lento, il dialogo è aperto e in continua evoluzione, e ‘Vite Parallele’ nasce proprio da questa tensione tra vecchi paradigmi e nuove possibilità.

Il tuo cinema evita il classico approccio documentaristico fatto di interviste e testimonianze frontali e dirette, privilegiando una narrazione più sensoriale e immersiva, molecolare. Come nasce questa scelta estetica e come credi che influisca sulla ricezione?
Mi interessa un tipo di cinema che mira a “riprodurre la complessità del pensiero”, come suggerisce la studiosa Laura Rascaroli, e a dare corpo al mondo invisibile delle idee. Normal come Real non hanno protagonisti, interviste, né un arco narrativo convenzionale, ma procedono per associazioni, un po’ come in un collage, cercando di spingere le immagini oltre la loro realtà documentabile, provando a suscitare quesiti, ad interrogare il quotidiano. Questa scelta nasce dalla volontà di creare un’esperienza più aperta e partecipativa per chi guarda. Piuttosto che offrire una narrazione esplicita o guidare il pubblico verso una tesi predefinita, cerco di costruire un tessuto visivo e sonoro che lasci spazio all’interpretazione, alla riflessione aperta. Lavorare per associazioni significa anche accogliere l’ambiguità e la molteplicità dei significati, permettendo agli elementi del film di risuonare in modi diversi a seconda dello sguardo di chi li incontra. La sensazione di immersione e la “molecolarità” di una narrazione frammentata probabilmente invitano a una fruizione più sensoriale e intuitiva, un’esperienza che sfida la passività di chi guarda la rende parte attiva nel processo di significazione.

Nei tuoi lavori ti muovi bene tra arte, politica e ricerca. Qual è la sfida più grande nel portare avanti un discorso femminista e intersezionale attraverso il linguaggio del cinema? E cosa ti piacerebbe che il pubblico portasse con sé dopo aver visto i tuoi film?
Per me è fondamentale che i film non si limitino a rappresentare, a riprodurre fedelmente la realtà osservata ma che siano esperienze trasformative, che provino a interpretare, problematizzare e immaginare nuovamente la realtà. Come nello specchio di Alice, che non si limitava a riflettere il mondo circostante, ma lo restituiva deformato, con alcuni aspetti sottosopra, rendendolo allo stesso tempo familiare e alieno, rassicurante ed estraniante, nei miei film gioco di proposito con le categorie di realtà e finzione, nel tentativo di stimolare nello spettatore nuove chiavi di lettura per interpretare quello che ci circonda. Quello che mi piacerebbe è che il pubblico uscisse dai miei film non con risposte definitive, ma con nuove domande, con un senso di spostamento rispetto alle proprie certezze. Se un film riesce a far emergere un pensiero nuovo, una contraddizione, un dubbio, un punto di vista diverso, allora ha fatto il suo lavoro.
Claudia Bruno
20/2/2025 http://www.ingenere.it
Imamgine: Credits Adele Tulli, Real (2024)
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