Se i nidi diminuiscono

Credits Unsplash/Brett Harrison

Nonostante tutti i governi ne sostengano apertamente l’importanza a parole, oggi gli asili nido in Italia sono diminuiti, non solo per il calo delle nascite ma per gli ingenti tagli alla spesa pubblica, con ripercussioni soprattutto per le donne che vivono al Sud. Un’analisi a partire dai dati

Dal 2013 a oggi, ogni premier che si è succeduto alla guida del paese ha dichiarato di voler sostenere e aumentare i servizi educativi per i bambini e le bambine da zero a tre anni. Del resto, aprire e promuovere nuovi nidi è una delle poche scelte politiche che mette d’accordo tutti: a destra come a sinistra, gli asili nido raccolgono invariabilmente consenso.

I nidi, infatti, hanno capacità strategiche: aiutano le donne a mantenere il posto di lavoro, incentivano la socialità di bambine e bambini, favoriscono l’intera economia del paese e combattono con efficacia la povertà. In particolare, quelle situazioni di povertà che negli ultimi dieci anni sono cresciute, anche se in modo diverso.

Secondo gli ultimi dati Istat, le famiglie che vivono in condizioni di povertà assoluta rimangono più o meno stabili – erano 2 milioni e 28.000 nel 2013, e nel 2023 sono aumentate a 2 milioni e 200.000 –, mentre si registra una crescita elevata di quelle che vivono in povertà relativa: da 3 milioni e 230.000, sono passate a 5 milioni e 700.000.

Tra imaggiori fattori di rischio per scivolare verso le povertà ci sono l’avere un reddito monogenitoriale e la presenza di un bebè in famiglia. Alla luce di questi dati, è facile capire perché gli asili nido siano un servizio prezioso e perché chi è alla guida del paese li sostenga, al di là dell’appartenenza politica.

Eppure, i servizi educativi da 0 a 3 anni non sono aumentati, ma diminuiti. Sempre i dati ci mostrano una crescita di copertura dei servizi: dal 2013 a oggi, siamo passati da circa il 21% al 28% di copertura. Questa crescita è spesso confusa come una crescita in termini assoluti, quando, in realtà, è in proporzione al numero di bambine e bambini. E dal 2013 a oggi, il numero dei posti nido è calato di circa 10.000 unità. Nel novembre 2023 l’Istat ha registrato 350.000 posti autorizzati, mentre nel 2013, sempre l’Istat ne contava 360.314.

Perché aumenta la percentuale di copertura ma non i posti nido è presto spiegato: è il numero dei bambini a diminuire, non sono i posti ad aumentare. Negli ultimi dieci anni, il calo demografico è stato inesorabile e continuo. Un calo che dagli anni Settanta si conferma di anno in anno, con dati a dir poco inquietanti.

Sempre per riprendere i dati Istat e avere un quadro d’insieme, leggiamo che nel 2013 in Italia sono nati 514.308 bambini e bambine, nel 2023 ne sono nati 379.890, mentre, facendo un salto indietro nel lontano 1973, vediamo che il numero delle nascite era pari a 852.427. In cinquant’anni le nascite si sono più che dimezzate – e il 1973 non è nemmeno l’anno del baby boom.

Ma le domande che rimangono ancora senza risposta sono tante. Perché i posti nido non aumentano nemmeno a fronte di una legge, la 65/17, che finanzia i servizi educativi con circa 700 milioni di euro ogni anno? Perché non sono aumentanti nemmeno grazie ai fondi europei – come i fondi del Piano d’accumulo del capitale (Pac), che hanno stanziato circa 400 milioni l’anno per tre anni, per aumentare i nidi al Sud?

Andiamo più in profondità rispetto alla prima domanda. Con la legge 65/17, lo statofinanzia per la prima volta i nidi. Un finanziamento distribuito su tutto il sistema educativo da 0 a 6 anni, quindi anche sulle scuole dell’infanzia. Di questo finanziamento, ai nidi arrivano in realtà poche risorse, che vengono spese per la formazione e poco altro. 

Da quando, nel 1971, sono stati istituiti i servizi, i nidi sono sostenuti dai comuni, con una cifra che, dal 2013 al 2023, è rimasta praticamente invariata: circa 1,2 miliardi l’anno per la gestione ordinaria. 

Dopo essere stata discussa e ripensata per quasi vent’anni, la legge fortemente sostenuta dal Partito democratico non ha portato grandi novità, né a livello quantitativo né qualitativo, nonostante le alte aspettative. Di fatto, la legge 65/17 – su cui a distanza di anni possiamo fare un bilancio più lucido – ha generato più ombre che luci.

A questo punto aggiungiamo altri tasselli. Al più noto Piano nazionale ripresa e resilienza (Pnrr) che finanzia la costruzione e la ristrutturazione di nidi e scuole, si è affiancato dal 2022 un nuovo finanziamento: il fondo di solidarietà comunale, gestito dal Ministero degli Interni.

Tuttavia il numero dei nidi non cresce, e torna la domanda: perché?

Prima di addentrarci tra numeri e percentuali, cerchiamo di scattare una fotografia di quali sono le condizioni dei servizi al Sud oggi, perché è proprio al Sud che questo fondo è destinato in prevalenza.

Il Sud Italia parte da una condizione molto diversa rispetto al resto del paese. Per chiarirci: se l’Emilia Romagna si avvicinava al 30% di copertura per le nuove nascite, la regione Campania si ferma circa all’8%.

Al Sud – anche grazie ai già menzionati fondi Pac, pari a circa 400 milioni all’anno per tre anni, dal 2012 al 2015 – le condizioni sono leggermente migliorate negli ultimi anni. Ma la situazione è ancora ben distante da quella del Nord Italia e ancor più da quella dell’Europa.

Durante il governo Draghi, con la legge di bilancio del 2022 sono state stanziate le risorse necessarie a incrementare il numero di posti in asilo nido per raggiungere nel 2027 i livelli essenziali di prestazione (Lep), fissati al 33%della popolazione tra gli zero e i tre anni per ciascun Comune o bacino territoriale.

Iniziando dai Comuni con un livello di servizio inferiore, erano state stanziate risorse che dovevano crescere di anno in anno, dai 120 milioni per il 2022 fino ai 1.100 milioni all’anno dal 2027.

Queste risorse sono state tagliate però in modo molto consistente dal governo Meloni: se con i fondi Pac abbiamo avuto una crescita e poi una decrescita dei servizi, oggi, con questo nuovo taglio, il rischio è quello di veder realizzare nuove strutture che poi non apriranno mai.

A questo punto il quadro si fa un po’ più chiaro: se fino a poco fa si assisteva a un congelamento del sistema, oggi siamo di fronte a un marcato arretramento. Questo nonostante i nidi siano sostenuti e desiderati da tutte e tutti, almeno a parole. 

Da quando sono stati istituiti, cioè dal 1971 a oggi, gli asili nido hanno sempre avuto vita difficile e hanno dovuto lottare per esistere: sono cresciuti molto lentamente, hanno tenacemente resistito, grazie a investimenti estemporanei sono leggermente aumentati, e ora rischiano di non aprire nemmeno quelli che sono stati realizzati in nuove strutture.

Il governo Meloni, che tanto spesso afferma di voler sostenere e far crescere le famiglie, di aiutare le madri, insistendo sull’importanza di incrementare la natalità, non punta affatto sui nidi: né aziendali, né comunali, né di altra natura. Il governo ha fatto marcia indietro, riducendo150.000 nuovi posti che erano già previsti dal Pnrr, e ha tagliato il fondo di solidarietà.

Si tratta di una resa quasi incondizionata, che va a inserirsi in un quadro già molto complesso e difficile. Non sono state ipotizzate strade alternative, laterali, temporanee o di altra natura per proseguire: è stato operato un taglio netto.  

Eppure, i nidi di qualità, come ha spiegato con estrema efficacia James Heckman, economista che ha ricevuto il Premio Nobel nel 2000,sono uno dei migliori investimenti che si possano fare, sia per lo sviluppo delle singole persone che per quello sociale ed economico di un paese. Heckman ha raffigurato questo concetto attraverso una curva, che indica molto chiaramente come gli investimenti che rendono di più siano proprio quelli verso dei buoni servizi educativi prescolari.

Inoltre, attraverso degli studi durati più di quarant’anni, l’economista statunitense ha dimostrato come frequentare servizi prescolastici di alta qualità abbia degli impatti economici importantissimi, che possono raggiungere il valore di 1:7. Ovvero, per ogni dollaro investito, ci sarebbe un ritorno di 7 dollari.                    

Il concetto è stato recepito anche politicamente e fissato nell’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite. Come riportato nel testo che descrive il quarto obiettivo, “istruzione”, “secondo uno studio del premio Nobel James Heckman, i programmi di sviluppo sin dai primi anni di vita, possono rendere il 13% l’anno per ogni figlio sul costo iniziale, grazie a migliori risultati scolastici, qualità della vita, occupazione, reddito e inclusione sociale”.

Ciononostante, nessun governo pare riuscire nell’impresa, anche quando le risorse sono già state investite. E del resto, non si vede nemmeno un reale contrasto rispetto ai tagli, se non da parte dalle storiche e sempre più anziane associazioni – ad esempio il Gruppo nazionale dei nidi, che il 16 dicembre scorso, con altre associazioni, ha portato il tema in discussione alla Camera.                                                                                

Da sole, però, queste realtà possono fare poco. Ci vorrebbe un nuovo movimento dal basso per portare una vera attenzione sul tema, come già era successo negli anni Settanta.

Chiudiamo quindi con una domanda: le donne torneranno in piazza a chiedere più nidi per tutti e tutte? E si uniranno finalmente alla battaglia dei nidi anche uomini, papà, nonne e nonni? Sarebbe davvero il momento di farlo.     

Laura Branca

12/2/2025 http://www.ingenere.it

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