Taranto, laboratorio di speculazione e rinvii infiniti
A Taranto nulla accade per caso. La vicenda della continuità produttiva di Acciaierie d’Italia (ex Ilva) è l’ennesima truffa orchestrata con cinismo: dietro le parole di “transizione” e “rilancio” si nasconde sempre lo stesso gioco sporco, che cambia interlocutori ma non sostanza. Le promesse di risanamento e lavoro sono vuote menzogne, consumate e gettate via come carta straccia, mentre la città resta schiacciata da inquinamento, povertà e disoccupazione, e pochi ingrassano alle sue spalle. Non si tratta di rilancio, ma di rapina, un inganno che si ripete senza vergogna, una ferita aperta che nessuno vuole davvero curare.
Le vicende dell’ex Ilva mostrano come Taranto sia stata sacrificata per decenni agli interessi di pochi, piegata a un modello industriale obsoleto e insostenibile, capace di garantire profitti privati a spese della salute, dell’ambiente e delle casse pubbliche. Il recente voto di fiducia del governo al decreto ex Ilva, con altri 200 milioni di fondi pubblici, conferma la volontà di mantenere in vita un impianto vecchio e pericoloso, senza certezze su tempi e costi. [1]
La nuova Autorizzazione Integrata Ambientale (AIA rilasciata il 25 luglio 2025 dal Ministero dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica (MASE)) dispone che Acciaierie d’Italia S.p.A. in A.S. sia autorizzata per 12 anni all’esercizio dello stabilimento siderurgico di interesse strategico nazionale. L’AIA conferma ciò che già si sospettava: garantisce la produzione a ciclo a caldo con tre altiforni per almeno altri dodici anni, consolidando il carbone come priorità e dimostrando, allo stato attuale, l’assenza di reale volontà di transizione. L’illusione dei forni elettrici, alimentati a gas e comunque inquinanti, viene rinviata a un futuro indefinito, affidata all’eventuale acquirente dell’impianto. Ma chi investirebbe davvero in un passaggio che comporterebbe perdite e rischi enormi? Molto probabilmente lo Stato continuerà a offrire ampi finanziamenti sia durante il percorso verso questa fumosa transizione, sia per eventuali investimenti necessari. [2]
La decarbonizzazione promessa resta dunque una cortina fumogena: mentre le istituzioni parlano di futuro verde, la realtà certificata dall’AIA è chiara e impietosa. Il carbone continuerà a dominare per oltre un decennio, mentre tempo, diritti e futuro di Taranto vengono sacrificati. Non è un caso che a febbraio 2024 l’ex presidente di Confindustria Bonomi avesse già dichiarato che a Taranto la produzione deve continuare con il ciclo a caldo, perché i forni elettrici sono altrove. [3]
I comuni di Taranto e Statte, escludendo la Regione Puglia che aveva già accettato senza riserve l’Accordo di Programma, hanno firmato il 12 agosto 2025 un accordo interistituzionale con il ministero delle Imprese e del Made in Italy basato su vaghe promesse di decarbonizzazione, rinviando ogni decisione concreta al 15 settembre, ultimo termine per la vendita della fabbrica, contraddicendo le posizioni rigorose ostentate fino a poco tempo fa.
Il bando di gara per la vendita dell’ex Ilva dovrebbe vincolare l’acquirente a una decarbonizzazione progressiva, prevedendo lo spegnimento delle aree a caldo e la realizzazione di tre forni elettrici per raggiungere la capacità autorizzata di 6 milioni di tonnellate annue. Tuttavia, la tutela occupazionale è solo accennata, mentre la frammentazione dell’azienda appare pensata soprattutto per attrarre più acquirenti e garantire profitti privati.
Al momento, sono 15 i gruppi che hanno manifestato interesse per l’acquisizione dell’ex Ilva di Taranto, sia per l’intero complesso che per singoli stabilimenti. Le offerte vincolanti, accompagnate dai piani industriali, dovranno essere presentate entro il 15 settembre 2025, con l’obiettivo di avviare la vendita entro il primo trimestre del 2026.
Tra i principali gruppi interessati figurano:
- Baku Steel: azienda azera che ha proposto un piano ambizioso, comprendente l’installazione di una nave rigassificatrice a Taranto e la riconversione dell’impianto verso forni elettrici .QuiFinanza+1
- Jindal Steel International: gruppo indiano che ha manifestato interesse attraverso la sua controllata Vulcan Green Steel, con un progetto focalizzato sulla decarbonizzazione e l’uso di forni elettrici .QuiFinanza+1
- Bedrock Industries Management Co.: fondo americano che ha presentato una proposta per la gestione e il rilancio dell’impianto .Corriere di Taranto+5Wikipedia+5QuiFinanza+5
- Metinvest: gruppo siderurgico ucraino che, insieme a Marcegaglia Steel, ha espresso interesse per l’acquisizione di singoli stabilimenti, come quello di Racconigi .RaiNews+1
- Marcegaglia Steel: azienda italiana che ha manifestato interesse per l’acquisizione di specifici impianti, come quello di Racconigi .L’Edicola+3RaiNews+3Wikipedia+3
Altri gruppi, come Stelco Holding (Canada) e Cleveland-Cliffs (USA), sono stati menzionati in precedenza come potenziali acquirenti, ma al momento non risultano tra i principali candidati .Business People
La situazione rimane fluida, con l’incertezza legata ai danni subiti dall’impianto di Taranto a seguito di un incendio nel maggio 2025, che ha compromesso la produzione e complicato le trattative .Wikipedia
In sintesi, i gruppi principali interessati all’acquisizione dell’ex Ilva sono Baku Steel, Jindal Steel International, Bedrock Industries Management Co., Metinvest e Marcegaglia Steel, con la presentazione delle offerte vincolanti prevista per il 15 settembre 2025.Economy Magazine+4Finanza Repubblica+4RaiNews+4
Tra i potenziali acquirenti figura BlackRock, che evidenzia come la promessa di un futuro rilancio della produzione di acciaio appaia piuttosto improbabile. Il fondo speculativo BlackRock rappresenta una delle espressioni più ciniche e distruttive del capitalismo contemporaneo. È l’emblema di come la finanza predatoria possa devastare vite e territori in nome del profitto. Questi colossi dell’investimento non hanno alcun interesse nel creare valore o sostenere l’economia reale: il loro unico scopo è spremere ogni possibile profitto rapido e massiccio.
Nel contesto i sindacati, pur esprimendo sorprendentemente consenso alle proposte del governo, hanno messo in luce le criticità dell’accordo provvisorio firmato dagli enti locali con il ministero. Tuttavia, non sembrano rendersi conto che entrambe le opzioni, quella dei comuni di Taranto e Statte, limitata ai tre altiforni, e quella estesa con quattro impianti DRI e quattro impianti di stoccaggio Co2 alimentati dalla nave rigassificatrice, comporterebbero inevitabilmente una drastica riduzione dei posti di lavoro.
Le garanzie occupazionali previste con i tre forni elettrici e la produzione di preridotto comportano una drastica riduzione degli occupati. Per tre forni elettrici destinati a una produzione di 6 milioni di tonnellate annue di acciaio, si stima la presenza di circa 200 lavoratori: dai 120 ai 150 per l’Area fusione (EAF + siviera/raffinazione), da 25 a 35 per la manutenzione meccanica, elettro-strumentale e refrattari, altri 25-35 impiegati in logistica, laboratorio QA, HSE, utilities/energia, e 10-15 supervisori, ingegneri e amministrativi per turno. La riduzione di personale è dunque drastica.
In sostanza, il progetto di decarbonizzazione resta problematico e illusorio: si parla di futuro verde mentre si consolida un presente a carbone destinato a durare oltre un decennio con impianti fatiscenti e pericolosi come dimostrato dallo scoppio dell’AFO1 il 7 maggio scorso [4].
Le istituzioni locali hanno assistito all’ennesima messa in scena: prima gonfie di fermezza, annunciando pubblicamente di non voler firmare un accordo privo di trasparenza e chiarezza, poi rientrate nei ranghi con un tempismo che sa di retromarcia imbarazzata. L’atto di “resistenza”, sbandierato come difesa degli interessi del territorio, si è rivelato una politica che teme più di rompere equilibri e rapporti di potere che di tradire le promesse alla cittadinanza.
Taranto vive sulla pelle le contraddizioni di un’industria pesante mai davvero riconvertita. La parola “decarbonizzazione” viene usata come mantra rassicurante, senza entrare nel merito di tempi, modalità e costi reali. Le istituzioni locali hanno avuto l’occasione di porre paletti chiari, chiedere garanzie concrete su occupazione, salute e ambiente, ma hanno scelto una compatibilità, per non scontentare vertici politici e industriali o per paura di uno scontro vero.
Il teatrino della falsa opposizione, con il coraggio esibito davanti alle telecamere e la resa consumata nel silenzio degli uffici, dimostra che quando le scelte toccano interessi economici forti, salute e futuro della comunità finiscono sempre in fondo alle priorità, anche quando si finge il contrario.
Il sindaco [5], oggi iscritto al PD, esalta soltanto l’esclusione della nave rigassificatrice, avanzando una serie di richieste di compensazione in ambito sanitario, universitario e infrastrutturale come contropartita alla riconversione dell’ex Ilva. Il documento firmato è così vago e ambiguo da dimostrare ancora una volta come la popolazione venga ingannata sull’altare del profitto e della speculazione.
Taranto resta sospesa, costretta a piegarsi a logiche che non ha scelto, con il respiro, i movimenti quotidiani e persino le speranze controllati da chi decide altrove. Il territorio e le vite degli abitanti diventano strumenti di un gioco di potere, manipolati e ridotti a materia prima per il profitto. Ogni promessa di riscatto svanisce davanti a decisioni prese lontano, e la città assiste impotente a una forma di dominio silenzioso, che decide chi può vivere, come e con quali possibilità, lasciando dietro di sé un paesaggio umano e ambientale svuotato, segnato, sotto controllo costante.
NOTE
[1] Dal 2012, a seguito del sequestro dell’area a caldo della acciaieria Ilva ai governi che si sono succeduti hanno adottato una serie di provvedimenti legislativi noti come “decreti salva Ilva” per sostenere l’ex Ilva, oggi Acciaierie d’Italia, nella gestione dei debiti e nel risanamento ambientale.
Il primo intervento significativo risale al Decreto Legge 83 del 2012, poi convertito in Legge 134, che autorizzava l’organo commissariale a contrarre finanziamenti fino a 400 milioni di euro con garanzia statale per investimenti necessari al risanamento ambientale (documenti.camera.it, it.wikipedia.org). Successivamente, con il Decreto Legge 103 del 2021, Invitalia è stata autorizzata a sottoscrivere apporti di capitale e a erogare finanziamenti in conto soci per un massimo di 705 milioni di euro, con l’obiettivo di garantire continuità produttiva e tutela ambientale (documenti.camera.it).
Nel 2023, il Decreto Legge 2 ha previsto ulteriori interventi di rafforzamento patrimoniale, con finanziamenti finalizzati anche alla decarbonizzazione del ciclo produttivo dell’acciaio (documenti.camera.it).
Infine, il Decreto Legge 4 del 2024 ha concesso finanziamenti a titolo oneroso fino a 320 milioni di euro destinati alla continuità produttiva, alla sicurezza dei lavoratori e alla salvaguardia ambientale (documenti.camera.it, senato.it).
I finanziamenti erogati dallo Stato per sostenere Acciaierie d’Italia hanno raggiunto cifre significative: nel 2023 sono stati stanziati circa 680 milioni di euro (ecquologia.com), nel 2024 320 milioni (documenti.camera.it) e per il 2025 sono previsti ulteriori 250 milioni (temi.camera.it). Complessivamente, considerando anche gli interventi dei decreti precedenti, lo Stato ha erogato oltre due miliardi di euro a sostegno dell’azienda (it.wikipedia.org).
Al 30 novembre 2023, i debiti complessivi di Acciaierie d’Italia ammontavano a circa 3,1 miliardi di euro, comprendendo 733 milioni di euro di finanziamenti, 1,318 miliardi di altre passività e 1,052 miliardi di debiti commerciali, di cui 548 milioni già scaduti (ilmanifesto.it).
Dal punto di vista societario, ArcelorMittal ha acquisito Ilva nel 2018 assumendone la gestione (it.wikipedia.org), mentre nel 2021 Invitalia è entrata nel capitale sociale acquisendo una partecipazione del 38% e trasformando la ragione sociale in Acciaierie d’Italia Holding (it.wikipedia.org).
Nel 2024 l’azienda è stata ammessa alla procedura di amministrazione straordinaria con la nomina di un commissario straordinario (documenti.camera.it).
A febbraio 2024 l’ex presidente della Confindustria Bonomi in un audizione al Senato ha asserito che l’acciaieria di Taranto non ha bisogni di forni elettrici per essere presente nel mercato ma è necessario che si produca acciaio con il processo a carbone. Ha asserito che i forni elettrici (32 in totale in tutta Italia) sono già presenti altrove pertanto a TARANTO è necessario produrre con il ciclo a caldo. Punto!
L’ultima Autorizzazione Integrata Ambientale (AIA) per lo stabilimento siderurgico di Taranto, precedentemente gestito da Ilva e ora da Acciaierie d’Italia, è stata rilasciata il 25 luglio 2025 dal Ministero dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica (MASE). Il decreto direttoriale n. 436/2025 autorizza l’esercizio dell’impianto per una durata di 12 anni, fissando un limite massimo produttivo di 6 milioni di tonnellate annue di acciaio e stabilendo circa 472 prescrizioni ambientali .Mite+7ANSA.it+7Corriere della Sera+7Ministero Infrastrutture e Trasporti+2Documentazione parlamentare
Tale Autorizzazione Integrata Ambientale (AIA) rilasciata a Acciaierie d’Italia per lo stabilimento di Taranto prevede 472 prescrizioni ambientali. Queste riguardano aspetti di emissioni in aria, gestione dei rifiuti, acque reflue, rumore, monitoraggio ambientale e sicurezza dei lavoratori, costituendo il quadro normativo e operativo che l’azienda deve rispettare per l’esercizio dell’impianto.
Fonti: Ministero dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica (MASE), Temi Camera.
Secondo quanto riportato dal Corriere di Taranto, l’azienda ha dichiarato che le prescrizioni contenute nel parere istruttorio conclusivo comporterebbero investimenti superiori a 1 miliardo di euro, un valore ritenuto dall’azienda incompatibile con la sostenibilità economica dell’attività industriale. Corriere di Taranto
Per una valutazione più precisa dei costi associati all’adempimento delle prescrizioni, sarebbe necessario consultare i piani di investimento e le relazioni tecniche presentate da Acciaierie d’Italia durante il processo di riesame dell’AIA, nonché eventuali documenti ufficiali rilasciati dalle autorità competenti. Ma non credo ci siano margini molto lontani da quanto dichiarato nel parere istruttorio.
[2] https://www.ilsole24ore.com/art/decreto-ex-ilva-si-camera-fiducia-finanziamenti-cig-misure-le-aziende-crisi-AHZo1MyB
[3] https://webtv.senato.it/webtv/commissioni/d-l-n-42024-decreto-ex-ilva
[4] https://www.ildiariodellavoro.it/ex-ilva-lennesimo-pasticcio-dallincendio-alla-cig-cosa-e-successo-a-taranto/?utm_source=chatgpt.com
[5] In un articolo pubblicato oggi 17 agosto 2025 su un quotidiano locale, il sindaco di Taranto Piero Bitetti osserva come “… la sfida del governo, a tutti i livelli, si incarica sempre di definire i rapporti di forza tra fatti e propaganda… è quanto accaduto anche a chi, negli anni recenti, ha governato l’Italia alternando alleanze prima con la destra e poi con la sinistra, proponendo soluzioni grandiose per questioni complesse come quella del siderurgico tarantino…”
Atteggiamento vago, parlando dei trasformismi degli altri mentre il suo stesso percorso politico, oscillando tra destra e sinistra, ne costituisce un esempio evidente.
Le fonti disponibili ricostruiscono parte della carriera politica di Bitetti: nel 1996 si candidò con AT6 – Lega d’Azione Meridionale, la formazione fondata da Giancarlo Cito, ma non fu eletto. In quell’occasione ottenne comunque una nomina nel Consiglio di Amministrazione delle Farmacie Comunali di Taranto. AT6, acronimo di “Antenna Taranto 6”, era un movimento di estrema destra attivo negli anni ’90, fondato da Cito dopo la sua espulsione dal Movimento Sociale Italiano per posizioni troppo estremiste. Il movimento si caratterizzava per un forte populismo, un uso strategico dei media locali e un atteggiamento provocatorio nei confronti delle istituzioni tradizionali, ottenendo un consenso tale da portare Cito a governare la città dal 1993 al 1996.
Franco Oriolo
19/8/2025 https://effimera.org/










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