Infermiere sotto attacco
Credits Unsplash/Matthew Waring
La violenza contro le professioniste del settore sanitario è un fenomeno strutturale, legato agli stereotipi di genere che ancora aleggiano intorno alla figura dell’infermiera, sminuendone le competenze. Dati e testimonianze su un problema diffuso in tutto il mondo, ma particolarmente grave in Italia
“Negli ultimi tre anni, in Italia c’è stato un aumento del 40% degli episodi di violenza fisica e psicologica contro le donne che lavorano nel settore della sanità, con una crescita esponenziale durante l’estate. Le aggressioni avvengono soprattutto nei pronto soccorso, durante gli interventi del 118 e nei reparti di psichiatria”.
È quanto riporta l’analisi condotta dall’Associazione medici di origine straniera in Italia (Amsi) insieme a Unione medica euromediterranea e al movimento internazionale Uniti per unire. Un dato che non stupisce – durante l’estate, le pagine di cronaca sono state invase dal racconto di gravissimi atti di violenza nei confronti delle professioniste sanitarie – e che va inserito all’interno di un panorama globale tutt’altro che confortante.
Secondo una revisione sistematica (scoping review) pubblicata su Plos Public Health, forum globale ad accesso libero per la ricerca sulla salute pubblica, nel 64% delle ricerche che hanno analizzato il fenomeno, le donne sono colpite in maniera prevalente rispetto agli uomini per tutte le forme di violenza. La connotazione di genere del problema però è spesso spiegata in termini meramente statistici: il professionista più colpito è l’infermiere, categoria professionale maggiormente rappresentata da donne. Questo avviene in tutto il mondo, con il 67% dell’occupazione globale nell’ambito infermieristico rappresentata dal genere femminile.
Secondo The Lancet – una delle cinque riviste internazionali più prestigiose in ambito medico – dire che le donne sono più a rischio di subire violenza sul posto di lavoro per una mera questione statistica “è una semplificazione eccessiva della situazione”. L’editoriale che introduce l’ultimo volume della rivista, infatti, sottolinea che, nonostante le ragioni per cui le operatrici sanitarie sono particolarmente vulnerabili alle violenze siano molteplici e risiedano anche nei ben risaputi problemi strutturali della sanità (orari poco convenienti, enorme pressione sul pronto soccorso, mancanza di personale, ecc.), questo non basta a spiegare il fenomeno.
Il problema, secondo quanto si legge su The Lancet, risiede nella sottovalutazione e nell’invisibilizzazione della natura misogina dei crimini che avvengono nel comparto sanitario: la violenza contro le professioniste sanitarie “è un problema strutturale”, riporta l’editoriale, esacerbato da tutte quelle “dinamiche che stanno alla base delle relazioni tra i generi e che determinano la distribuzione delle risorse e del potere”.
A livello globale, per fare un esempio, solo il 25% delle posizioni di leadership sono ricoperte da donne e molto spesso le professioniste sanitarie occupano “ruoli di prima linea, pericolosi, sottovalutati e sottopagati”. Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità, la pessima condizione in cui versano le professioni sanitarie dominate da donne (tra cui spicca il ruolo delle infermiere) è determinata da un valore sociale inferiore in base a precise norme sociali e stereotipi di genere, che le espone costantemente a situazioni discriminanti e rende difficili, nello scenario attuale, la loro presa di posizione e di parola.
“Le aggressioni che subisco io, non sono le stesse che subisce il mio collega” ci racconta Giulia (nome di fantasia), che ha lavorato molti anni al pronto soccorso. “A noi dicono ‘p******a’, ci vogliono svilire, cosa che con i miei colleghi non è mai avvenuto”. Sono tantissime le operatrici sanitarie che raccontano come le aggressioni fisiche siano solo la punta dell’iceberg del problema, alla cui base troviamo una solida cultura sessista e patriarcale.
“Molto spesso” continua l’infermiera “se sono in una stanza con un collega maschio, il paziente si rivolge automaticamente a lui, mentre io non vengo proprio vista. E questo succede anche se l’uomo che è con me, è una persona che nella scala gerarchica di un reparto mi è sottoposta, come nel caso dell’operatore socio sanitario”. Questa condizione non sempre però riesce a essere riconosciuta: “spesso siamo noi stesse ad alimentare questo atteggiamento di sudditanza. Il pensiero è che alla fine siamo delle semplici infermiere di cura e non dobbiamo sporcarci le mani con questi problemi”.
Nella nostra società esiste un immaginario molto radicato che aleggia intorno alla figura dell’infermiera – la più colpita dalle violenze – e che in qualche modo ricalca la dicotomia ‘santa/puttana’ con cui da secoli le donne sono costrette a fare i conti. Se da un lato, nel cinema, nella letteratura, e nell’iconografia popolare, l’infermiera è spesso la donna sexy, ammaliante e sessualmente molto disponibile, dall’altro è altrettanto diffusa la percezione di questa professione come incarnata da una donna accomodante e consolatrice, sempre pronte a dare una carezza, a risollevare e curare gli animi dei pazienti.
Una visione, questa, rinforzata anche dal percorso didattico che ancora viene offerto nelle università: “nei corsi di studio siamo alla preistoria” continua Giulia, “come punto di riferimento abbiamo Florence Nightingale, una figura di tutto rispetto che ha fatto cose importantissime ma che viene ricordata perché andava con il lanternino di casa in casa.[1] Ora, però, la situazione nei reparti è cambiata. Noi passiamo l’80% del tempo con i nostri pazienti, e, per formulare una cura, il personale medico si basa tantissimo sulle nostre osservazioni”.
“Sicuramente è importante avere un approccio empatico” aggiunge Francesco (nome di fantasia), anche lui infermiere di pronto soccorso, “ma non possiamo passare il 50% del nostro corso di formazione su questo. Finendo poi per non saper fare la rianimazione cardiopolmonare”. La questione, quindi, è che essere una professionista sanitaria, in questo caso un’infermiera, non significa esercitare un maternage. “Che tipo di professionalità vogliamo creare?” si chiede Giulia, rispetto alla formazione ricevuta e alla percezione generale che la società ha del suo lavoro, “professioniste che alla fine sono mezze psicologhe, un po’ sociologhe, un po’ persone che si occupano di cura, o persone che devono stare attente alla salute delle e dei pazienti per la maggior parte del tempo, quindi personale clinico?”.
In Italia, la mancanza di consapevolezza su quali sono i fattori culturali e strutturali che esacerbano le violenze contro le professioniste sanitarie e che rendono il loro ruolo all’interno degli ospedali degradante e de-professionalizzante, si rende particolarmente evidente analizzando l’approccio securitario messo in atto per cercare di risolvere il problema.
La risposta principale all’ultima ondata di violenze negli ospedali da parte della politica è stata infatti quella di militarizzare i reparti più problematici. A questo si è aggiunto il decreto Schillaci-Nordio, che stabilisce la possibilità di arrestare (in presenza di prove video) anche dopo 28 ore chi esercita violenza negli ospedali e l’installazione di telecamere in tutte le aree ad alto rischio. Il decreto prevede inoltre un inasprimento delle pene e delle multe per i reati contro il personale sanitario. Tutto questo però senza che venga stanziato un euro in più.
Altre ‘soluzioni’ sono di tipo fai-da-te e dipendono dalla gestione interna del reparto. “In reparto avevamo una regola: mai un turno di notte senza almeno due uomini” racconta Caterina (nome di fantasia), infermiera di psichiatria in un ospedale pubblico italiano. “Mi sono chiesta molto spesso se questo fosse giusto, e di principio sapevo non esserlo. Ma quando poi, per evitare discriminazioni, le regole sono state cambiate, noi abbiamo avuto paura”. Negli ultimi anni, poi, nei reparti più a rischio si è puntato molto sulla formazione al personale sanitario, attraverso il concetto di de-escalation che aiuta a identificare il rischio e trovare strategie adeguate per evitare che le situazioni violente esplodano. Per quanto importante, questo intervento tende però a responsabilizzare molto le persone che lavorano in ospedali e presidi sanitari, de-responsabilizzando allo stesso tempo chi la violenza la agisce e la stessa cultura che la alimenta.
Adottare una lente di genere nel guardare alla questione delle violenze contro le professioniste sanitarie rende chiaro che, al netto dei problemi gravi e sistemici del comparto sanitario del nostro paese, la cultura sessista e patriarcale aggrava particolarmente la posizione delle donne negli ospedali. Queste ultime, infatti, sono vittime di stereotipi degradanti e de-professionalizzanti e di un sistema in cui sono quasi sempre sottoposte, sottopagate e sottovalutate.
Non sorprende di certo questo quadro, in un paese in cui manca completamente un’educazione sessuale capillare e la volontà politica di lottare contro le differenze di genere, oltre le questioni meramente giuridiche e di forma, per scardinare una volta per tutte e profondamente la cultura che le mantiene in piedi.
A corollario degli interventi emergenziali messi in atto finora e di un’azione finalmente strutturata sul sistema sanitario, bisognerebbe quindi iniziare da un’enorme opera di sensibilizzazione sull’importanza del lavoro delle professioniste sanitarie, per ristabilirne lo status e il loro valore sociale, affrancandolo da stereotipi invalidanti legati a dinamiche di sessualizzazione (come quello dell’infermiera sexy) e a un’ideale di cura in stile maternage.
Note
[1] Secondo Il Post, anche il racconto di questa figura è stato nel tempo ridimensionato rispetto alla portata femminista e trasformatrice delle sue gesta.
Riferimenti
Human Resources for Health Observer Series No. 24, Delivered by women, led by men: A gender and equity analysis of the global health and social workforce.
World Health Organization, Violence and Harrassment.
World Health Organization, 10 key issues in ensuring gender equity in the global health workforce, World Health Organization.
Camilla Valerio
12/11/2024 http://www.ingenere.it/
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