Le soluzioni securitarie del governo alla crisi ospedaliera

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Simona Grassi Medico-chirurgo. Coordinamento peril diritto alla Salute della Campania.

Paolo Fierro Medicina Democratica Napoli

Il I ottobre del 2024 il governo Meloni ha varato il decreto legge 137 che riguarda l’inasprimento delle pene per i rei di aggressione ai danni dei sanitari con l’arresto in fragranza diretta o differita e la multa di 10.000 euro per danneggiamenti a suppellettili o arredi dei locali di assistenza medica, ospedali o ambulatori. Le pene risultano aumentate se i reati commessi riguardano gruppi o più individui.

Il problema degli atti di violenza ai danni di operatori sanitari è certamente un tema rilevante: i dati ufficiali pubblicati sul Quotidiano Sanità ci parlano di 16.000 atti di violenza verbale e/o fisica nel 2023 e la tendenza è confermata per l’anno in corso. Questi dati sono di certo parziali perché moltissimi di questi episodi, i meno eclatanti, non vengono affatto riferiti, né alle forze dell’ordine né alle direzioni aziendali. Inoltre di certo non tengono conto delle quotidiane tensioni che si verificano sui nostri luoghi di lavoro, che per fortuna non esitano sempre in franchi episodi di violenza ma rappresentano tuttavia un grande ostacolo ad un esercizio sereno del lavoro di cura.

Il fatto che gli ospedali, ma anche i poliambulatori, da luoghi di assistenza siano divenuti sede quasi costante di conflitti è un dato ormai acquisito e ciascun operatore – compreso chi scrive – potrebbe testimoniarlo.

Ma la soluzione che propone il governo si presenta parziale e miope e senza dubbio si situa nel solco dei provvedimenti repressivi che affiancano il DDL 1660.

Nonostante ciò, parte dei sindacati medici hanno subito plaudito alla svolta.

Ma di quale svolta si parla? Si tratta di una serie di misure che fungano da deterrente ad un fenomeno, quello della violenza, che è oltremodo diversificato e di cui bisognerebbe rintracciare le cause profonde.

Per evitare equivoci va detto che non è accettabile alcuna forma di violenza su nessun lavoratore. Tuttavia il rischio è che questo genere di normativa ci porti a stigmatizzare tutte le manifestazioni di paura, angoscia e malessere assimilandole a quelle illegittime e criminose e a punirle severamente.

Nella nostra esperienza, in questo fenomeno si intersecano diverse forme di “violenza”. Da un lato vi sono veri e propri atteggiamenti malavitosi (richiesta di cura dietro minaccia esplicita, pretese di essere curati per primi, senza rispetto dell’ordine di gravità e di arrivo…), propri di alcuni ambienti che soprattutto in alcune aree del paese rappresentano purtroppo un vero cancro nella sanità e non solo. Dall’altro esistono episodi – piuttosto sparuti – legati allo squilibrio psicoemotivo di soggetti labili. Infine, la fetta maggiore dei conflitti è da ascrivere alla esasperazione delle persone rispetto a cure che non vengono più erogate nei modi e nei tempi adeguati a salvaguardarne la salute.

Posti letto per 100.000 abitanti (fonte: WHO Regional Office for Europe. “ Hospital beds per 100 000”. European Health for All database (HFA-DB). Ottobre 2024. https://gateway.euro.who.int)

Nei Pronto Soccorso Campani, nonostante l’introduzione del triage, i tempi di attesa per una visita possono arrivare a 7 o 8 ore, ben oltre i tempi previsti dal triage che per i codici bianchi prevede un massimo di 240 minuti. Anche se questa media riguarda per lo più i cosiddetti “codici verdi” si può dire che tutta l’attività di ricezione e presa in carico subisce tempi di rallentamento molto preoccupanti (1).
Pronto Soccorso, come dice la parola, è un servizio che deve essere erogato in tempi brevi o brevissimi perché sottintende l’accoglienza dei casi urgenti.

L’obiezione che viene spesso posta è che nei pronto soccorso arrivano, oltre alle urgenze, migliaia di casi ragionevolmente gestibili sul territorio, dalla medicina di base, dai poliambulatori territoriali, dalle strutture intermedie come case o ospedali di comunità. Ma questo è vero solo in parte, altrimenti non sarebbe spiegabile come mai tante persone rimangano in piena notte in PS in attesa di una visita che potrebbero ricevere comodamente in ambulatorio.

Se si prova a porre questa domanda ai pazienti, la risposta è sempre la stessa: la medicina di prossimità non esiste e i tempi delle liste d’attesa sono infiniti per cui l’ospedale è l’unica (o l’ultima) sponda su cui approdare. Molte volte questa spiegazione viene data con segni evidenti di sconforto, a volte piangendo, a volte urlando, altre volte chiedendosi come sia possibile aver lavorato tutta la vita per una società che al primo problema ti volta le spalle. Spesso il racconto parte da lontano, quando il sintomo che presentavano era molto più sfumato ma durante i sei-dodici-diciotto mesi di attesa della visita si era andato accentuando o si era addirittura complicato dando il via ad una vera e propria fase critica. A quel punto il paziente (o qualche parente sbrigativo) decide di precipitarsi in ospedale con la preoccupazione o la certezza che sanche alla medicina privata, spesso senza approdare alla soluzione: gli sono stati prescritte ulteriori indagini che si traducono in altre attese o altre spese. Per alcuni invece l’opzione del privato non risulta affatto percorribile.

Ma giunti in ospedale bisogna ancora aspettare, il che ingenera frustrazione e sfiducia. Si comincia a pensare che gli operatori siano superficiali nel non aver preso in carico il proprio problema o che il meccanismo di triage non sia adeguato. In realtà le ragioni dell’attesa sono da ricercarsi prevalentemente nella carenza del personale. Nei pronto soccorso rimasti aperti non ci sono sufficienti operatori né per rispondere alla domanda sovrabbondante di salute né a stabilire un dialogo decente con gli ammalati e i familiari per cui il canale di fiducia tra medico e paziente fa fatica ad aprirsi. Se si chiede a medici ed infermieri quanti casi trattino per turno nei pronto Soccorso la risposta è spesso sconvolgente: decine e decine di casi con caratteristiche disparate di gravità e complessità. Gli ospedali più grandi della Campania, sede di DEA di II livello, arrivano a contare anche 80-100 accessi al giorno. Quindi il lavoratore della salute, a sua volta stressato da questa accelerazione forzata dei tempi di lavoro, è portatore di una tensione costante che si confronta con quella dei sofferenti, troppi, capitati nel turno. Ha un tempo definito da poter dedicare al singolo paziente, pena la mancata presa in carico degli altri.

Infermieri abilitati per 10.000 abitanti (fonte: WHO Regional Office for Europe. “Nurses licensed to practice, per 10 000 population”. European database on human and technical resources for health (HlthRes-DB). Ottobre 2024. https://gateway.euro.who.int)

Infermieri abilitati per 10.000 abitanti (fonte: WHO Regional Office for Europe. “Nurses licensed to practice, per 10 000 population”. European database on human and technical resources for health (HlthRes-DB). Ottobre 2024. https://gateway.euro.who.int)

Anche gli ambienti, l’organizzazione del lavoro, le regole aziendali, il setting in generale in cui il lavoratore o la lavoratrice si muove, pur non essendo sue responsabilità, gli vengono imputate dall’utenza che lo/la riconosce come interfaccia.

E’ a questo punto che la frustrazione genera conflitto e talvolta violenza, che non va mai giustificata, ma di cui va compreso il meccanismo se la si vuole evitare.

Quindi uno degli elementi su cui agire è certamente la carenza di personale. Si fa un bel parlare della abolizione del numero chiuso, opzione della cuiussista un rischio per la propria vita o per qualche organo. Una parte di queste persone, durante il calvario, si è rivolta necessità chi scrive è convinto da molto prima che divenisse all’ordine del giorno. Tuttavia, anche qui, non è detto che aumentare semplicemente il numero dei medici ridarebbe slancio al servizio sanitario nazionale.

Dal 1995 al 2014 i laureati in medicina sono stati tra 6000 e 7000 unità, ben meno che negli anni precedenti (dal 1980 al 1986 ad esempio i laureati sono stati sempre più di 13,000). Dal 2020 il numero dei laureati medici è ritornato sopra alla soglia degli 11,000 ma ci vorranno anni a colmare il vuoto lasciato da venti anni di assottigliamento dei laureati. Per questa ragione la stratificazione per classi di età dei medici in servizio non è affatto omogenea. Ci dicono insistentemente che la fetta più numerosa di personale andrà in pensione nei prossimi dieci anni. Ma se il numero di medici sta lentamente aumentando e comunque non si discosta del tutto dalla media europea, lo stesso non si può dire del numero degli infermieri, che è invece nettamente sottodimensionato. Nel 2020 in Italia si sono laureati meno di 10,000 infermieri, contro 35,000 della Germania, 28,000 dell’UK e 25,000 della Francia. Il rapporto infermieri/abitanti è tra i più bassi d’Europa. E’ indubbio che questo incida sulle carenze di personale e che si rifletta anche sul lavoro dei medici, con un altissimo tasso di demansionamento. Gli infermieri presenti nei reparti (naturalmente con una ampissima forbice tra nord e sud, dove sono ancora molti meno) non sono sufficienti a svolgere tutte le attività loro attribuite, comprensive di mansioni teoricamente a carico degli operatori sociosanitari o di amministrativi. Pertanto alcune di esse tornano in carico ai medici che quindi passeranno parte della loro giornata lavorativa a registrare parametri vitali e richiedere esami e consulenze, oltre che a compilare interminabili moduli valutativi (onere che ricade, per altri aspetti, anche sugli infermieri). .

La carenza dei medici è indubbia per i medici di medicina generale dove nel corso di 25 anni si sono perse in Italia 8500 unità, in Campania 910 (nel 1997 i mmg in Italia erano 47,900, in Campania 4.460, i dati del 2022 ne registrano invece rispettivamente 39.366 e 3.542). Dei rimasti, i ¾ ha più di 27 anni di anzianità e circa il 60% ha più di 1,500 assistiti. Ragionamento simile per i pediatri di libera scelta, dei quali in Campania il 78,9% segue più di 800 bambini.

Ma l’ipotesi di riapertura delle porte a medicina ha già destato scalpore presso i sindacati corporativi. Nel marzo ’24 l’Anaao/Assomed, dalle colonne dal Sole 24 ore, lanciava il suo grido di preoccupazione per il previsto “eccesso” di 32mila medici in dieci anni, che quindi potrebbe compromettere il rapporto domanda-offerta a sfavore dei professionisti. A nostro modo di vedere neanche l’apertura delle Facoltà di Medicina ad un maggior numero di studenti risolverebbe le carenze del SSN poiché nella fase attuale risulta molto più attrattivo per i neolaureati il lavoro nel privato. Meno della metà dei medici attualmente attivi in Italia è dipendente in strutture pubbliche. Altri sono convenzionati col SSN o dipendenti di case cura accreditate o private.

Medici abilitati per 10.000 persone ( fonte: WHO Regional Office for Europe. “Nurses licensed to practice, per 10 000 population”. European database on human and technical resources for health (HlthRes-DB). Ottobre 2024. https://gateway.euro.who.int)

Sicuramente allora bisognerebbe incamerare le energie dei giovani sin dal percorso formativo con una serie di sostegni statali, per costi, tasse, alloggi, trasporti e corsi di formazione, il riscatto gratuito degli anni di laurea e specializzazione agli studenti che stipulino un patto di successiva opzione per il pubblico nel dopo laurea Discorso analogo dovrebbe esser fatto per i medici dipendenti del SSN sollevandoli dall’onere di assicurazione professionale, corsi di aggiornamento e riscatto oltre ad un adeguamento degli stipendi almeno al crescente costo della vita. Intanto il governo continua a immaginare di combattere le liste di attesa detassando lo straordinario e quindi non rafforzando la struttura dei servizi ma semplicemente super pagando le ore in più che il professionista sarebbe chiamato a fare. (L. n. 213/2023, commi 218-222). Questa formula nella realtà non funziona perché il peso già eccessivo di ore lavorative del personale nel pubblico non può essere dilatato in maniera significativa e all’infinito.

Quindi, da un lato bisognerebbe potenziare la presenza del personale infermieristico, dall’altro aumentare il numero dei medici interni al SSN e di quelli di medicina generale. Verso questi ultimi bisognerebbe avere il coraggio di sciogliere una contraddizione stridente che è insita nel loro rapporto contrattuale: sono rimasti liberi professionisti in convenzione con il SSN per un antico privilegio corporativo mentre andrebbero vincolati al SSN come dipendenti per entrare a pieno titolo nei programmi di medicina territoriale con la relativa formazione delle linee direttive ed un collegamento più diretto con i diversi gangli del Servizio Sanitario. Discorso simile riguarderebbe gli specialisti che andrebbero motivati a lavorare nel pubblico per frenare la loro fuga verso il privato. Questo si potrebbe ottenere facilmente attraverso una serie di incentivi e soprattutto una riorganizzazione dei servizi. Sarebbe necessaria come premessa la sostituzione dell’attuale impianto aziendalista e produttivista che mortifica la dignità lavorativa con un nuovo modello improntato ad un migliore rapporto tra operatori della cura e sofferenti, un nuovo impianto sociale del SSN che al momento non esiste nell’agenda politica non solo dell’attuale governo ma di tutte le rappresentanze che siedono in parlamento.

Percentuale medici con età superiore a 65 anni
( fonte: WHO Regional Office for Europe. “Nurses licensed to practice, per 10 000 population”. European database on human and technical resources for health (HlthRes-DB). Ottobre 2024. https://gateway.euro.who.int)

Gli operatori sono schiacciati da una organizzazione gerarchica e antidemocratica in cui il proprio lavoro è valutato in base agli obiettivi raggiunti in termini di numeri, spesso non corrispondenti alla tutela della salute. Questo, assieme al demansionamento, ai mancati aumenti contrattuali, ai tempi incalzanti, ai carichi di lavoro, alle aggressioni e alle illogiche decisioni calate dall’alto, fa sì che tanti abbandonino il proprio posto di lavoro migrando nel settore privato o all’estero. Il fatto che molti di questi elementi siano risolvibili a costo zero è molto indicativo della volontà politica di aprire margini sempre più ampi alla sanità privata o alle assicurazioni, alienando di fatto alla popolazione il suo diritto alla salute.

1) I tempi medi di attesa nei pronto soccorso italiani, prima di essere ricoverati in un reparto, in 5 anni, sono aumentati decisamente. L’attesa media in pre-ricovero ha registrato un aumento di 6 ore: nel 2019 si attestava a 25 ore mentre nel 2023 è stata di 31 ore, con un aumento del 25%. Fonte: Osservatorio Simeu (Società italiana di medicina di Emergenza-Urgenza). Il motivo a nostro avviso è da ricercarsi anche nella continua riduzione dei posti letto (vedi grafico1)

Anzianità di laurea dei medici di medicina generale (Annuario statistico del SSN 2022 – Ministero della Salute)

Napoli novembre 2024

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