Le narrazioni del dolore

La forma più fondamentale della cura non è quella che riceviamo accedendo a un ospedale o a un ambulatorio medico, ma quella erogata all’interno della famiglia o dei rapporti elettivi delle persone con le quali si condivide la vita quotidiana. Qui incontriamo le persone chiamate a prestare volontariamente cura e assistenza, indicate globalmente con il termine inglese “caregiver”.

“Io e Isabella abbiamo cominciato a litigare. Sta con me in ospedale tutto il giorno ed è sempre più stanca e magra, come c’è da aspettarsi in questa situazione tragica. Quando mi ha chiesto: ‘Ma tu avresti mai fatto questo per me?’ non ho saputo rispondere. Non lo so”. Stiamo forse spiando una situazione di coppia in conflitto, guardando indiscretamente dal buco della serratura? No: la scena è resa pubblica dal protagonista, che la racconta in un libro. Il riferimento è a In frantumi, di Hanif Kureishi (1).

Lo scrittore si è trovato in una drammatica situazione clinica a seguito di una caduta, con lesione spinale e conseguente tetraparesi, che l’ha costretto a un ricovero ospedaliero e a un lungo percorso di riabilitazione. Come ormai è diventato costume, non si è chiuso nel silenzio, ma ne ha fatto oggetto di una narrazione autobiografica. Non diversamente dal celebre Salman Rushdie, che nel libro Coltello (2) ha offerto un dettagliato resoconto dell’attentato subito da un fanatico che lo ha pugnalato per dar seguito alla fatwa, procurandogli gravi danni e la perdita di un occhio. Ma non si finirebbe di citare la schiera di tutti coloro che, a qualsiasi livello dell’abilità narrativa, danno conto di come le vicende del corpo si iscrivono nel loro percorso di salute e malattia. Siamo ormai autorizzati a parlare di un vero e proprio genere letterario, che in inglese ha preso il nome di “misery report”; in italiano lo possiamo tradurre come “narrazioni del dolore”. La finalità di questi racconti, riconducibili al vasto territorio della medicina narrativa, sono le più diverse. In generale possiamo riscontrare, più che una ricerca di compassione, un intento di condivisione.

E di fatto, se abbiamo la benevolenza di seguire i protagonisti delle narrazioni in questi percorsi, più che un beneficio estetico-letterario ne ricaviamo una più profonda conoscenza di come il vissuto di malattia incide nell’esistenza umana. Acquistiamo indirettamente un più profondo sapere, anche senza aver vissuto certe tragiche esperienze sulla nostra pelle.

Tornando allo spunto da cui siamo partiti, l’annotazione di Kureishi ci aiuta a mettere a fuoco la tensione che si può creare tra coloro che erogano le cure e quelli che li ricevono. Le cronache documentano gli scoppi di aggressività da parte di certi cittadini che non si sentono curati come vorrebbero nelle strutture sanitarie pubbliche. Parallelamente, la riflessione sociale insiste sullo stress di molti professionisti della cura, sottoposti a una richiesta che eccede le riserve di energie personali, quelle che hanno luogo nell’ambito familiare e vedono come protagonisti congiunti e affini del malato. Molto raramente invece l’attenzione si focalizza su ciò che avviene nell’ambito delle cure non professionali. In questo scenario hanno luogo vicende drammatiche che lo scrittore mette ben in evidenza: “Due settimane fa nella mia vita è scoppiata una bomba che ha sconvolto anche la vita di chi mi sta attorno. La mia compagna, i miei figli, i miei amici. Le mie relazioni vanno rinegoziate. Tutti sembrano un po’ pazzi, tutto è cambiato. Ci sono i sensi di colpa e la rabbia, il risentimento per essere così dipendenti, la frustrazione di non poter fare tutto da soli. Il mio incidente è una tragedia fisica, ma per tutti noi le conseguenze emotive saranno enormi”.

È un fatto di esperienza: la forma più fondamentale della cura non è quella che riceviamo accedendo a un ospedale o a un ambulatorio medico, ma quella erogata all’interno della famiglia o dei rapporti elettivi delle persone con le quali si condivide la vita quotidiana. Qui incontriamo le persone chiamate a prestare volontariamente cura e assistenza, indicate globalmente con il termine inglese “caregiver”. Quante sono le persone coinvolte? Non ci siamo mai presi la briga di contarle accuratamente. Nella pubblicazione dell’Istat dedicata a Conciliazione tra lavoro e famiglia, del 2018 (3), si stima in 2.800.000 le persone che assistono regolarmente figli o altri parenti in quanto malati, disabili o anziani. Caregiver sono per lo più donne; 650.000 persone – sempre secondo lo stesso documento – si occupano inoltre contemporaneamente sia di figli minori di 15 anni che di famigliari bisognosi di assistenza.

Se insufficienti sono le statistiche generali, del tutto carenti sono i dati riguardo all’impatto del peso della cura sulle dinamiche familiari: dal gravame economico – quante persone sono costrette dall’impegno di assistenza ad abbandonare il lavoro e a contrarre debiti – a quello emotivo. Il flash di Kureishi è sufficiente a farci immaginare tensioni, conflitti, rotture di rapporti. Per lo più ne abbiamo una percezione aneddotica; magari un conoscente, incontrato per caso, ci informa sullo sviluppo che il morbo di Parkinson ha avuto sulla sua vita: la moglie lo ha lasciato, perché non vuol vivere accanto a un uomo che le chiederà un impegno di assistenza sempre crescente… E rimaniamo con la curiosità di sapere, possibilmente con statistiche attendibili, se sono più le mogli che lasciano i mariti o gli uomini che lasciano le mogli in caso di malattia cronica ingravescente (anche se tutti giureremmo di sapere qual è la risposta giusta!).

La scheggia tagliente che Kureishi lascia balenare tra lui stesso e chi lo assiste – “Ma tu avresti mai fatto questo per me?” – evocando i tanti possibili conflitti ci obbliga a domandarci: che cosa tiene insieme le cure che hanno luogo nell’ambito familiare? È il senso di colpa, il debito morale o che altro? È forse l’onda lunga della cultura del dono-controdono, che secondo l’antropologo Marcel Mauss ha costituito il primo passo fondamentale per uscire dalla primitiva conflittualità tribale (4)? I nostri padri latini  avevano affidato le cure familiari a una parola: la pietas. Si trattava allo stesso tempo di una divinità – ben due templi erano stati dedicati a Pietas nell’antica Roma – e della personificazione di un sentimento: quello che inclinava a compiere il proprio dovere nei confronti della famiglia, della patria e della religione. Il “pio” Enea, che incarnava simbolicamente questa virtù, era encomiabilmente dedito ai valori tradizionali, a cominciare da quelli da esercitare nella famiglia occupandosi dei vecchi e dei bambini. E quando il dovere lo chiama a proseguire il viaggio per andare a fondare Roma, non esita a lasciare l’amoroso abbraccio di Didone, provocando la sua rovina: non ci si aspettava un comportamento diverso dal pio Enea. In seguito il cristianesimo ha espropriato la pietas del significato originario, rendendola sinonimo di compassione e benevolenza, insieme a quello di rispetto del credente verso Dio e le cose sacre. Per non dire dell’ulteriore virata semantica, quando serve a esprimere il disprezzo per persone, cose, spettacoli che “fanno pietà” (magari una connotazione appropriata per lo stato attuale del SSN…).

Se la parola “pietà” è irrecuperabile, dovremo forse rassegnarci a tenere l’inglesismo del caregiver. Ma più che alla parola, è importante che dirigiamo la nostra attenzione alla dimensione sociale che questa forma di cura ha assunto, senza dimenticare le eventuali ricadute giuridiche e assistenziali. Il “pius Aenea” dei nostri giorni non è più un baldanzoso eroe che porta sulle spalle il padre anziano e tiene per mano il figlio bambino; è piuttosto, a sua volta, un settantenne – più precisamente nella maggioranza dei casi una donna – che tiene sulle spalle uno o due genitori novantenni e non più autosufficienti, e per mano un figlio quarantenne con sindrome di Down, o cerebrolesione, o autismo… Il nostro immaginario, ma soprattutto le nostre conoscenze sociologiche vanno radicalmente rinnovate. Magari anche il diritto dovrà confrontarsi, ripensando alle ripartizioni ereditarie: sarà appropriato considerare le diverse posizioni tra gli eredi, distinguendo chi ha speso la propria vita nel ruolo di caregiver da chi non ha mosso un dito.

Soprattutto il nostro welfare si deve confrontare con questi nuovi profili della vita domestica. La cura non può più essere semplicemente delegata alla buona volontà e alle dotazioni virtuose dei singoli: va riconosciuta e integrata nell’insieme dei servizi di cura sociali, sociosanitari e sanitari. In alcune realtà locali il campanello di allarme è suonato. Solo un esempio: sullo scorcio del 2024 nel consiglio regionale del Veneto è stato avanzato un progetto di legge per “il riconoscimento, la valorizzazione e il sostegno del caregiver familiare”, specificato come la persona che presta volontariamente cura e assistenza: chi dunque “in modo gratuito e responsabile, senza obbligo di convivenza, residenza o domicilio comune, si prende cura di una persona cara consenziente, in condizioni di non autosufficienza o comunque di necessità di ausilio di lunga durata nell’ambito del piano assistenziale individualizzato”. Nella legge proposta vengono identificati interventi a favore del caregiver, promosse reti di sostegno, riconoscimento di competenze, azioni di sensibilizzazione e partecipazione. A cominciare, naturalmente, dal passaggio dall’invisibilità di queste persone alla loro rilevanza sociale. “Le difficili condizioni delle famiglie, le crescenti disuguaglianze sociali ed economiche, il silenzio che circonda il problema della cura, richiedono una urgente assunzione di responsabilità rispetto ai bisogni e al benessere del caregiver e del ruolo che questi svolge nel sistema del welfare”, come viene specificato nel razionale che giustifica il progetto di legge; per questo “è necessario riconoscere valore e diritti a coloro che si assumono l’onere della cura”.

L’ottima iniziativa lascia però una domanda in sospeso: avremo anche in questo ambito prodotti di autonomia differenziata, così che in alcuni territori del paese i caregiver saranno riconosciuti e sostenuti, mentre in altri continueranno a dipendere dalla generosa disposizione e dalle virtù personali? È giunto il momento di una legge nazionale che dia pieno riconoscimento alla figura del caregiver familiare; non in nome della bontà, ma della giustizia sociale.

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

  • Hanif Kureishi: In frantumi, tr. it. Bompiani, Milano 2024.
  • Salman Rashdie: Meditazioni sopra un tentato assassinio, tr. it. Mondadori, Milano 2024.
  • ISTAT: Conciliazione tra lavoro e famiglia (https://www.istat.it files 2019/11).
  • Marcel Mauss: Saggio sul dono. Forma e motivo dello scambio nelle società arcaiche, tr. it. Einaudi, Torino 2002.

Sandro Spinsanti

1972/2025 https://www.saluteinternazionale.info/

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