Se questo è un uomo

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Avigliana – Torino, dicembre 1945 – gennaio 1947: ad Avigliana c’era la sede della fabbrica dove lo avevano appena assunto come chimico, a Torino la casa dov’era nato e dove avrebbe abitato per tutta la sua vita. Levi andò scrivendo quel suo primo libro in qualsiasi ritaglio di tempo disponibile, e quando non scriveva raccontava a voce la propria esperienza a chiunque incontrasse: il raccontare era per lui un bisogno primario come il cibo.
Italo Calvino, lo definì il libro più bello uscito dall’esperienza della deportazione. Ci vollero poi molti decenni affinché Levi venisse considerato uno scrittore dalla statura pari a quella del testimone.
Il racconto di un intero anno, dal febbraio 1944 al 27 gennaio 1945, trascorso nel Lager di Buna-Monowitz. La Buna era uno dei quarantaquattro campi satelliti di Auschwitz, in Alta Slesia, nel territorio polacco; doveva il suo nome a una fabbrica di gomma sintetica – la Buna, per l’appunto – che, come Levi racconta, non poté mai entrare in funzione. La storia comincia con l’internamento dell’autore nel campo per ebrei di Fossoli, presso Carpi, e termina con la liberazione di Auschwitz da parte dell’esercito russo. Levi riuscì a sopravvivere grazie al cibo supplementare procuratogli segretamente da un operaio italiano, Lorenzo, e grazie al fatto che i tedeschi intendevano cominciare a Monowitz la produzione della gomma sintetica: laureato in chimica, venne “assunto” dopo uno sconcertante esame che figura tra i vertici del racconto, e poté trascorrere alcuni mesi nel laboratorio industriale del campo, al riparo dal gelo e dai lavori pesanti. L’opera si apre con una poesia (Shemà, in ebraico: «Ascolta»), che dopo aver chiesto al lettore di considerare se ancora si possa definire «uomo» colui «Che lavora nel fango / Che non conosce pace / Che lotta per mezzo pane / Che muore per un sì o per un no», gli comanda attenzione e memoria per quanto gli sarà riferito. Levi non chiede compassione, ma consapevolezza e vigilanza morale: e infatti, dopo questa poesia, che è modellata sulla preghiera fondamentale della religione ebraica e che rappresenta un vero e proprio scoppio d’ira biblica collocato subito prima del racconto vero e proprio, il tono di Levi si mantiene inflessibilmente mite. La sua è una voce che non giudica e non odia, ma nemmeno è disposta a perdonare gli aguzzini; il suo intento è «fornire documenti per uno studio pacato di alcuni aspetti dell’animo umano». Levi descrive senza morbosità, quindi con efficacia moltiplicata, una realtà indescrivibile: «per la prima volta ci siamo accorti che la nostra lingua manca di parole per esprimere questa offesa, la demolizione di un uomo». La deportazione nei carri bestiame, le percosse senza ragione, gli ordini urlati in una lingua straniera, il lavoro da schiavi, l’inedia, le selezioni per mandare in gas gli inabili al lavoro, la guerra di ciascuno contro ciascuno, le gerarchie visibili e invisibili, le figure dei privilegiati (Prominenten) e dei morti viventi (Muselmänner: «Mussulmani»), l’abbrutimento assoluto e l’etica fondata sul raggiro e la sopraffazione, ma anche i rari amici, e i compagni di prigionia che Levi delinea da straordinario ritrattista fisiognomico-morale.
Il Lager appare come un mostruoso esperimento antropologico, che rivela cosa sia connaturato e cosa sia invece acquisito nell’animo umano. La voce, la lingua, lo sguardo, l’orecchio di Levi sono insieme quelli dello scienziato e dell’umanista. La sua sintassi è modellata sui classici latini e italiani, il respiro epico ha la schiettezza arcaica di Omero, l’energia metaforica proviene da Dante (celeberrimo l’episodio in cui traduce a memoria per un compagno francese – il «Pikolo» – il canto di Ulisse), l’arguzia e l’inventiva linguistica sono ispirate, paradossalmente, da Folengo e Rabelais: persino nel Lager, infatti, Levi riesce a venare di savio umorismo la sua prosa. Testimone e artista, Levi offre questo libro come uno specchio per le vittime, per i carnefici e per i comuni lettori.
Se questo è un uomo è diviso in diciotto brevi capitoli e conta meno di duecento pagine a stampa. Nel 1976 Levi gli aggiunse una Appendice, nella quale rispondeva alle domande che gli venivano poste più spesso nelle scuole dove andava a raccontare la sua esperienza: questo testo di riflessione è il primo nucleo de I sommersi e I salvati, l’estrema riflessione di Levi sul Lager, che sarà pubblicata nel 1986.
Marilena Pallareti
Insegnante a Forlì
Collaboratrice redazionale del periodico Lavoro e Salute  www.lavoroesalute.org
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