CROLLA TUTTO

italia cadente

Sulla stampa, ogni giorno, leggiamo di storici marchi in crisi senza mai indagare le ragioni che spingono alla chiusura aziende un tempo rinomate e altamente produttive, anni di crisi , e di ammortizzatori sociali, culminati nella vendita della proprietà a gruppi esteri. Poco o nulla sappiamo delle filiere produttive, del rifornimento di materie prime e dei processi di lavorazione, spesso le aziende hanno agito come vecchie botteghe medievali gelose custodi delle loro ricette, in numerosi altri casi le aziende che credevamo italiane sono state da anni vendute all’estero, resta il marchio ma è cambiata la proprietà e non solo quella.

Processi di produzione innovativi, qualità delle materie prime, marketing sono parti essenziali di una strategia industriale che da tempo manca in numerosi settori del made in Italy. Non basta la provenienza italiana per superare concorrenti agguerriti nel mercato globale, non serve neppure ridurre ai minimi termini il costo del lavoro.
La crisi del settore va inquadrata dentro l’Ue di Maastricht, molti hanno dimenticato le quote latte , gli accordi a livello comunitario che spesso favorivano i produttori proprio per non produrre e rendere saturo il mercato, l’agricoltura è stato un campo minato di politiche assistenzialiste da una parte e dall’altra incapaci di restituire dignità e orgoglio ad un settore importante della nostra economia.
Negli ultimi anni crescono Ortofrutticoli e cereali e gli Oli extravergine di oliva, aumentano la qualità del prodotto e il numero degli addetti e cosi’ l’Italia si conferma il Paese con il maggior numero di riconoscimenti Dop, Igp e Stg conferiti dall’Unione europea.
Da una parte chiudono marchi storici, dall’altra nasce un nuovo modello produttivo che ha bisogno del mercato europeo per crescere, questa è la fotografia di un settore che attrae sempre piu’ numerosi giovani.

Ma solo negli ultimi 15 anni marchi storici come Salumi Fiorucci, Peroni (la birra), Orzo Bimbo, Riso Scotti, acqua Pellegrino, olio Bertolli sono stati acquistati da multinazionali all’estero, resta il marchio italiano ma ormai solo quello.
E’ la fotografia di un paese in crisi che da anni non ha investito nella qualità industriale optando invece per prodotti di nicchia per la vendita dei quali serve lo stretto legame con l’Ue e un Governo che spiani la strada all’ingresso nei mercati emergenti.
Mentre il settore alimentario vive processi trasformativi, i padroni italiani invocano l’apertura dei centri commerciali 24 ore su 24 per 365 giorni all’anno.
Nei prossimi giorni le aperture domenicali dei negozi diventeranno questione dirimente per l’economia del paese o almeno vorranno farcelo credere.
Gli imprenditori del commercio promettono battaglia e già hanno stanziato soldi per una campagna finalizzata bocciare un decreto legge che, se approvato, introdurrebbe l’obbligo di chiusura di almeno 26 domeniche all’anno oltre ad altre 12 festività nazionali, alcune delle quali soppresse.

Il disegno di legge è attualmente in Commissione e deve ancora arrivare in Parlamento dove non mancheranno emendamenti e riscritture ma prima ancora che se ne discuta è partita la campagna di Confimprese e Confindustria a difesa delle liberalizzazioni del Governo Monti

Prima di Monti, correva l’anno 2011, la normativa preveda piena libertà di orari solo nelle città d’arte e turistiche, poi dal 2011, dopo il decreto legge ad hoc, è stata concessa la totale libertà, sull’intero territorio nazionale, di stabilire senza regola alcuna l’orario di apertura e di chiusura e restare aperti anche per l’intera giornata e per 365 giorni l’anno, festività comprese.

Prima di Monti i sindacati avevano siglato accordi nazionali che spianavano la strada alle aperture domenicali scegliendo di privilegiare la libera concorrenza, tanto cara al diritto comunitario, a discapito dei diritti di lavoratrici e lavoratori che rivendicano almeno un giorno di riposo festivo da trascorrere in famiglia. E come accaduto con il diritto di sciopero, sottoscrivere intese e contratti nazionali con limitazioni all’esercizio dei nostri diritti, significa venire presto sconfitti , del resto se offri un dito al padrone finisce che ti prende il braccio (e non solo quello). Ovviamente silenzio assoluto sulle condizioni di lavoro, e di vita, in molte catene produttive alimentari, orari impossibili, ritmi infernali, zero diritti sindacali.

Se il sindacato resta incapace di una battaglia unitaria e complessiva per denunciare non solo il lavoro nero nei campi ma anche le condizioni di sfruttamento nella filiera agro alimentare, i padroni sono invece coesi a difendere i loro privilegi, per questo partiranno campagne stampa, raccolta di firme per alimentare la paura del cittadino consumatore. Cosi’ ci troveremo eventi nei centri commerciali, sconti e offerte nel weekend, si scomoderanno le assocazioni in difesa dei consumatori, tutti insieme appassionatamente in difesa del libero mercato. Ma arriveranno anche ben altre pressioni, con lo spauracchio dei licenziamenti , dei tagli orari e salariali i sindacati saranno spuinti a prendere le distanze da ogni disegno legislativo mirante a contenere le aperture domenicali e festive. Lo hanno già fatto con il decreto dignità sul tempo determinato attraverso deroghe e accordi collettivi nazionali che hanno dilatato la durata della stagione , lo faranno di nuovo con le aperture festive.

Non a caso sono arrivate le prime notizie, sulle pagine de Il sole 24 Ore, ad annunciare licenziamenti all’outlet di Serravalle all’indomani dell’entrata in vigore del decreto legge.
Ma un altro ruolo dirimente sarà giocato dai sindaci e dai corpi intermedi in nome della salvaguardia dei posti di lavoro e dell’economia locale, non mancheranno gli ipocriti a denunciare che a rischiare saranno i lavoratori piu’ deboli, quelli con contratti part time per il weekend.

Sarà un gioco al massacro e senza esclusione di colpi, proveranno a giocare tutte le carte a disposizione, argomentazioni tipicamente padronali e liberiste e altre invece di natura sindacale o sociale, tutte utili se opportunamente usate per giustificare la libertà di aprire i negozi 365 giorni all’anno e 24 h su 24.

Con la liberalizzazione degli orari le condizioni retributive e lavorative sono decisamente peggiorate, il liberismo non ha salvato gli storici marchi dalla crisi o dalla vendita a gruppi stranieri. Per anni sono state pubblicate ricerche di mercato a dimostrare che le vendite non sono poi cosi’ aumentate perchè il problema è invece un altro: in assenza di soldi si spende decisamente meno, i consumi stagnano. In 10 anni, nel settore alimentare, i contratti part time sono diventati preponderanti rispetto ai full time, il lavoro nero continua ad essere una piaga, il salario sta diventando una variabile in parte dipendente dagli incassi, senza articolo 18 la libertà di licenziamento la fa da padrona generando un clima di paura nel settore commercio che porta la forza lavoro a subire continue discriminazioni.

Ma il liberismo sfrenato ha prodotto nel frattempo danni nefasti modificando radicalmente il modo di pensare di tanti uomini e donne, lavoratori e lavoratrici piegandoli a difendere una una ideologia che sottrae loro diritti e dignità. Il consumatore seriale e demenziale nell’immaginario collettivo alimenta luoghi comunali per i quali i negozi aperti 24 al giorno sono sinonimo di modernità società aperta, produzione ed occupazione. Siamo in presenza di una battaglia non solo sindacale ma dai molteplici risvolti sociali, culturali e politici e , perchè no, umani, per combatterla ad armi pari occorre prendere atto di tutte questioni in ballo, non limitarsi ad una lettura parziale e men che mai stare sulla difensiva.

Federico Giusti

10/2/2019 www.controlacrisi.org

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