Donne, mafie, contaminazioni

Gisella Modica. Tra le motivazioni all’origine di questo testo c’è la ricerca di pratiche di contrasto alla mafia efficaci, creative. Se ne parla nell’antefatto citando in nota la definizione che ne dà Chiara Zamboni.[1] Clelia Lombardo, in proposito, dalla sua posizione di educatrice “in contesti difficili”, parla di “assunzione di responsabilità”. “Io che posso fare?” “Sperando che indagare dentro sé stessi […] possa rendere la posizione personale sempre più coerente con le azioni”.

Di responsabilità parla anche Rossella Caleca che intraprende una ricerca sul campo per indagare “in che modo l’agentività delle donne possa innescare percorsi trasformativi individuali e collettivi”, a seguito di una “dislocazione”, di un trauma che fa acquisire la consapevolezza della vulnerabilità. Di “vulnerabilità […] alla maniera delle vite precarie di Judith Butler, dov’è la relazione all’altro a contare” scrive Cristina Bracchi nella sua approfondita ricerca di un “indispensabile simbolico di contrasto alle mafie” attraverso il prisma della letteratura, per approdare alla figura di Antigone, su cui torneremo.

Clara Triolo parlando dei suoi alunni, i quali pensano che “per sconfiggere la mafia […] si dovesse essere uomini dotati di poteri eccezionali”, racconta come abbia invece scoperto sul campo “una lotta che passa attraverso […] la propria interiorità, l’apertura al dubbio […] l’ascolto non giudicante, perché il cambiamento avviene solo nell’incontro”. Monroy invita a “rivendicare il diritto ad avere sentimenti propri, e non quelli che ci dicono che dobbiamo provare”, e questo può avvenire attraverso “il riconoscimento del proprio dolore”. “Lì si aprono interstizi, possibilità di ragionamenti altri […] nasce il nuovo pensiero […] si svelano le storture”.

Alessandra Dino. Trovo molto belle le riflessioni di Judith Butler quando spinge a liberare la condizione di vulnerabilità dal paradigma soggettivistico neoliberale.[2] Riletta nelle cornici del giusfemminismo la vulnerabilità si trasforma da fragilità di specifiche categorie di persone, a condizione intrinseca a tutti gli esseri umani da porre esplicitamente a fondamento delle istituzioni politiche e della produzione giuridica, per regolamentare la violenza/forza (pubblica e privata). Non è un caso che una sezione del nostro libro sia dedicata alla violenza e ai dislivelli di potere che regolano le relazioni tra uomini e donne. In questa nuova prospettiva, la fragilità umana è il punto di partenza per definire i limiti della legge e gli aspetti costrittivi che la accompagnano.

Penso anche ai lavori di Adriana Cavarero che mettono in discussione il potere falsamente neutrale del diritto (l’impersonalità e la razionalizzazione) che si traduce in forme di oppressione nei confronti dei soggetti esclusi dalla gestione del potere. La negazione della differenza sessuale nel discorso logico che assolutizza la finitezza e la parzialità del maschile, declinato in un “io” dato come universale, fa sì che l’esperienza che le donne fanno di loro stesse come soggettività avvenga nella forma della “separatezza” e della impossibilità della parola. Scrive Cavarero: “Se io sono il linguaggio dell’altro, decido di negare questa estraneazione negando me stessa; piuttosto che dirmi in un linguaggio straniero, allora il silenzio. Simbolo impotente, perché nel silenzio ancor meglio mi parlo e mi penso sempre all’interno di quella rete concettuale che ha suoni da me non profferiti. Nel silenzio tace il suono, non la parola”.[3]

Gisella Modica. Io trovo il riconoscimento del dolore in sintonia con quanto scrive Ruba Salih, attivista palestinese, in merito ad alcune pratiche femministe agite in contesti fortemente colonizzati.[4] Salih, riferendosi alle anziane rifugiate che “ricordano attraverso il corpo e ciò che questo ha sopportato”, si chiede se le lacerazioni della vita quotidiana causate dalla violenza dell’occupazione israeliana, il contenimento del dolore e la cura nei continui dislocamenti, possono diventare progetto politico non meno delle azioni di resistenza nell’ambito pubblico. Scrive Salih: “L’amore può essere una nozione politica” così come “le emozioni che evocano il domestico e il quotidiano”.

Il pensiero va a Felicia Bartolotta Impastato. L’esperienza della perdita del figlio è divenuta stimolo per una forte rivendicazione etica e politica “mantenendo in vita” il figlio, come le Madres di Plaza de Mayo, attraverso la memoria e il dialogo con le nuove generazioni. La creazione di un sapere/spazio condiviso, come suggerisce Lombardo, inoltre, lo ritengo necessario per chi, come noi, è animata dal desiderio di una parola e di un pensiero sulla mafia nati dall’esperienza, e rinegoziati nella relazione. Mi chiedo (ma lo accenno soltanto) se si configuri da parte nostra anche come un modo di “fare teoria”, nel modo in cui la intende il collettivo AdATeoriaFemminista creato da Angela Putino e Lucia Mastrodomenico: “La teoria per noi inizia quale rabberciatore di strutture, piccolo marchingegno di riparazione, gioco in serie; non si parte mai da un ampio sistema […] in genere si cammina muovendo da un intoppo, infilando una soluzione provvisoria quando c’è un’impasse. Insomma, una teoria si avvia sempre a partire da qualcosa che non va”.[5]

Una pratica che è stata più volte richiamata dalle autrici è quella del raccontare. “L’atto di narrare è moltiplicatore, come un albero si ramifica in migliaia di altre voci attraverso le generazioni […] È un atto di resistenza, ma anche di costruzione di un’alternativa” scrive Costa. Come “atto di resistenza” ne fa uso Vanessa Ambrosecchio che mette in scena la storia delle Leonesse di Vergine Maria coinvolgendo gli alunni del quartiere Arenella, insieme alle antiche protagoniste della lotta cercate una per una e ritrovate. Costoro negli anni settanta si barricarono per salvare un tratto di mare dove venivano scaricate tonnellate di “rovine e masserizie […] come la proterva rivendicazione di uno stupro”. Lombardo da scrittrice, oltre che da educatrice, sa come “le parole non sono mai asettiche”, e quanto sia importante l’immaginazione.

Ma non è facile “immaginare una rappresentazione mentale della realtà mafiosa che non sia mediata da scene di film o serie televisive”. Da “testimone” del periodo delle stragi, pone “la necessità di raccontare, semplicemente raccontare […] [che] può fare da ponte con le generazioni più giovani”. Tenere viva la memoria e ascoltare le storie di donne a cui la mafia ha ucciso un parente, da lei fotografate, è quanto fa Gabriella Ebano. “Nell’urgenza della parola […] queste donne si esprimevano in dialetto, il linguaggio materno [che] mi scuoteva scavando nei miei stessi dolori”. Ascoltare storie di donne in terra di ‘Ndrangheta, scegliendo un paesino della Calabria come punto di “ripartenza” è l’itinerario raccontato da Garofalo. “Storie di donne troppo vive in una cultura di morte”. “Mi pongo in ascolto delle loro narrazioni, con esplorazioni attente alle risonanze che queste esperienze producono in me”, scrivianche tu a proposito delle donne di mafia intervistate e del “senso di spaesamento” che provocano.

Alessandra Dino. Occuparsi di come parlano e scrivono le donne di mafia, e del cambiamento del loro modo di esprimersi al momento della fuoriuscita dal sodalizio criminale, è occuparsi della prospettiva “femminile” della mafia. Il processo di riappropriazione del linguaggio, accompagna nelle donne di mafia la transizione dal dentro al fuori, narrata attraverso una cesura linguistica che è insieme cesura cognitiva. Della parola di queste donne, scritta o parlata, connotata da una specificità di genere – o anche solo liberata dai legami con la falsa neutralità del linguaggio maschile – colpisce la forza destrutturante, con la quale – come ha scritto Julia Kristeva – è possibile trasformare logiche opprimenti in processi di autocoscienza, rompendo i meccanismi della socializzazione differenziale e della subcultura sessuale “posti a garanzia dei nostri ordinamenti sociali”.[6]

Nella realtà, tutto procede speditamente, quasi fosse naturale, fino a quando l’ordine non viene messo in discussione. E allora, la repressione della disobbedienza – anche di quella “solo” verbale – è estremamente violenta. Il linguaggio che nomina quanto è indicibile si trasforma in un’arma capace di rompere l’alienazione del pensiero unico maschile e mafioso. Il linguaggio – che si appropria simbolicamente dei soggetti, imbrigliando la loro soggettività e familiarizzando alla violenza – è tuttavia l’unico strumento in grado di ribaltare la situazione di subalternità femminile. È nella riappropriazione della parola, che esprime la diversità soggettiva del genere, che avviene per le donne il transito – più o meno compiuto, più o meno consapevole, e anche più o meno autentico – dal dentro al fuori. Si tratta però di un cammino reso insidioso dalle mille trappole culturali che possono trasformare in un dono avvelenato ogni forma di “indulgenza” che la società dimostri nei riguardi delle donne. Sono continui esercizi di avvicinamento e di distanziamento.

Esperimenti che richiedono il confronto con l’altro da sé. Un altro da sé che non si colloca sempre nell’altrove del contesto mafioso,ma che può essere rinvenuto anche in un diverso modo di percepire la distanza/vicinanza che il contatto con questo mondo produce.

Note

[1] Per Zamboni le pratiche del femminismo possono intendersi come gesti imprevisti capaci di leggere l’altra faccia del reale, scaturenti da un forte desiderio o da intuizioni/visioni. Sono mediazioni, passaggi di soglia che assomigliano alla situazione del sogno, in cui gli elementi non sono definiti, ma sempre a disposizione per essere inventati.

[2] Judith Butler, Vite precarie. Contro l’uso della violenza in risposta al lutto collettivo, Meltemi, Roma, 2004.Edizioni m

[3] Adriana Cavarero, Per una teoria della differenza sessuale, in AA.VV., Diotima. Il pensiero della differenza sessuale, La Tartaruga, Milano, 1987, p. 53 

[4] Ruba Salih, Il corpo, della memoria e la memoria del corpo. Le donne rifugiate e la politica dell’ordinario. In “DWF” nn. 1-2, 2018, Palestina Femminismi e Resistenza.

[5] Stefania Tarantino, Tristana Dini, Nadia Nappo, Lina Cascella (2017, pp. 21-22). “Teoria e pratica non possono essere decise prima, ma solo nel loro divenire che non è possibile prevedere. La nostra proposta politica è fare teoria e agganciarvi le pratiche”.

[6] Julia Kristeva, Poteri dell’orrore. Saggio sull’abiezione, Spirali, Bologna, 2006.

Alessandra Dino, Gisella Modica

16/12/2022 https://www.ingenere.it

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